Critica
Con qualche libertà e una sublime delicatezza, Emmanuel Finkiel rilegge il celebre romanzo di Marguerite Duras che lo sconvolse a 19 anni.
"Questa donna che attende il ritorno del marito dai campi di concentramento faceva eco alla figura di mio padre, una persona che aspettava sempre. Anche quando ebbe la certezza che la vita dei suoi genitori e di suo fratello era finita ad Auschwitz". Il regista di Voyages e Je ne suis pas un salaud adatta il testo della grande scrittrice per arrivare a una considerazione universale su un sentimento proprio di tutti gli uomini. L'opera di Finkiel non è un biopic su Marguerite Duras, ma un diario intimo del dolore, un ritratto della presenza dell'assenza, un viaggio interiore di un'anima ripiegata su se stessa che Mélanie Thierry ha saputo brillantemente portare alla luce. L'attrice francese attraversa magistralmente l'evoluzione di Marguerite Duras dagli anni della sua gioventù a quelli della sua maturità.
"Di fronte al camino, il telefono, è affianco a me. A destra, la porta del salone e il corridoio. In fondo al corridoio, la porta d'ingresso. Potrebbe ritornare direttamente, suonerebbe alla porta d'ingresso: "Chi è? - Sono io". Finkiel così annuncia l'attesa, citando in apertura del film l'inizio del romanzo, tratto dal giornale personale che Duras aveva scritto dopo l'arresto di suo marito nel '44, e poi a lungo dimenticato. Tra diario intimo e racconto, il film traduce fedelmente in immagini il romanzo aspro e ardente attraverso un'esemplare messa in scena e la distanziazione propria della scrittura di Duras, senza rinunciare ad esplorare la violenza dei sentimenti. Lo sdoppiamento, l'alienazione della donna che si guarda allo specchio, si osserva dall'esterno nelle immagini che finiscono per offuscarsi, rende ancor più potente la descrizione delle emozioni.
Le cravatte dimenticate nell'armadio, la cucina silenziosa, la casa vuota, abitata dall'assenza raccontano il dolore di Marguerite che diventa presto anche una paura, una vergogna, quella di dipendere da un ambiguo agente della Gestapo, l'unico suo legame con il marito scomparso. Tra i due inizia una partita di scacchi tra date e luoghi di Parigi in incontri al limite della seduzione in cui ognuno pensa di poter manipolare l'altro. Il dolore di Marguerite, infine, lascia spazio al senso di colpa a cui il suo amante Dionys Mascolo (Benjamin Biolay) la mette di fronte: "Ogni giorno di attesa ti sei distaccata (da Robert), ogni giorno di più. E questo non lo sopporti". Marguerite con un filo di voce risponde "sei un bastardo", prima di cadere nelle sue braccia.
"Niente più dolore. Non esisto. Allora, perché attendere Robert Antelme? Perché lui piuttosto che un altro? Cosa attende lei davvero?", citando fedelmente alcuni passi del romanzo che Mélanie Thierry legge in modo quasi ipnotico, Finkiel segue Marguerite infine alienata da se stessa, che quel passaggio dalla prima alla terza persona il romanzo ben sottolinea. Attraverso una Parigi grigia, umiliata, ferita, osservata attraverso le persiane chiuse di casa di Marguerite, Finkiel segue l'evoluzione della donna attraverso quel "disordine fenomenale del pensiero e del sentimento", di cui Duras parlava nel preambolo del suo romanzo.
Attraverso lo sguardo di Marguerite, ripresa in lunghi e numerosi primi piani, il regista ricostruisce, anche sulla base della storia personale, quella Parigi sottomessa, costretta a convivere con il nemico, condannata al silenzio di Stato sullo sterminio degli ebrei, di cui non si seppe nulla fino alla fine degli anni '60. La scena di Marguerite vestita di rosso, che in bicicletta attraversa Parigi deserta durante il coprifuoco, sorda ai rumori esterni, rimane dunque l'immagine più emblematica di una città che aveva voglia di ricominciare a vivere, di una donna che voleva ricominciare a esistere.
Infine, Finkiel si prende qualche licenza rispetto al romanzo, mettendo in risalto la sorte degli ebrei che è solo accennata nel testo, o rifiutando di mostrare il corpo di Robert, morto vivente che ritorna a casa, se non attraverso la disperazione della moglie. Eppure, in un'ultima scena su un'assolata spiaggia italiana su cui Robert si staglia come una filiforme figura in controluce, Finkiel lascia l'ultima parola a Marguerite Duras: "Sapevo che sapeva, sapeva che a ogni ora di ogni giorno, io lo pensavo: Robert non è morto ai campi di concentramento".
Francesca Ferri, Mymovies.it, 8 gennaio 2018
Come si fa a tradurre in immagini la complessità di un romanzo-diario scritto da un'icona della letteratura francese come Marguerite Duras? E come si fa a filmare l'assenza, il desiderio di un ritorno che diventa ora disperazione e disillusione, ora paura dell'orrore del corpo emaciato e dello spirito distrutto dell’amato tenuto prigioniero in un campo di concentramento, ora infantile sogno a occhi aperti del ritrovarsi e abbracciarsi, ora senso di colpa per un tradimento? L'impresa è realizzabile solo se a monte c’è una grande passione per l’argomento trattato, una perfetta padronanza del mezzo cinematografico e una forte identificazione con il personaggio di cui si penetra l'anima e si narra l'annullamento del sé e la devastazione interiore e anche fisica. Tutte queste caratteristiche La douleur le possiede.
Alla Duras Emmanuel Finkiel è, vicino, anzi, vicinissimo, perché, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, suo padre ha aspettato, fra lo speranzoso e il rassegnato, il ritorno da Auschwitz dei genitori e del fratello, assaporando l'inquietudine e l'insensatezza del tempo morto dell'attesa. La sfida, però, nel film, era rendere questo tempo vibrante, svincolarlo dal flusso di coscienza di un'opera letteraria e legarlo al trascorrere dei mesi, lasciando tuttavia il cuore straziato di chi aspetta prigioniero di un limbo. La sfida era anche uscire dal dramma esistenziale per inoltrarsi nel territorio del thriller storico, della ricostruzione di un'epoca dall'iconografia affascinante ma fin troppo rappresentata. Nonostante una certa verbosità e ripetitività, il regista si è rivelato all’altezza di ognuno di questi compiti, e ci è riuscito per due ragioni. Innanzitutto perché a impersonare la moglie dell’intellettuale Robert Antelme che nel 1944 fu arrestato e deportato prima a Buchenwald e poi a Dakau, ha chiamato un'artista sublime come Melanie Thierry, che non imita goffamente l’autrice di "Memorie di Adriano", ma ne interiorizzala sofferenza, le parole ardenti e l’impetuosità di sentimenti.
Piccola, esile e con il viso sgualcito, gli occhi cerchiati e una sigaretta in bocca che fa tanto cinema francese anni '30, la sua Marguerite sembra spezzarsi ma in realtà ha la tempra di un'eroina, ed è una donna prima che una scrittrice, e quindi un personaggio che chiama più facilmente all'identificazione. Se non fosse per l'ammirevole capacità di colei che la interpreta di esprimere un'infinita gamma di emozioni attraverso un semplice sguardo, non potremmo tornare nella Parigi dell'epoca e capirla (e viverla) così a fondo, coglierne umori e suggestioni, assaporare la quasi isterica allegria dei sopravvissuti e la desolazione di quelli rimasti orfani dei congiunti.
E’ questa rappresentazione - in soggettiva - della capitale francese occupata dai Nazisti l'altro punto di forza di La douleur, che mostra una città che è rumore di clacson, sirene che annunciano bombardamenti, chiacchiericcio nei bistrot e gente che si affolla nel fuori-campo, ma anche luogo dell’alienazione e dell'assurdità della vita. Finkiel la filma con ricercatezza ed eleganza, soffermandosi su un cappellino, sulla Gare D'Orsay in cui arrivano i prigionieri dei tedeschi, oppure trasformandola in un luogo quasi metafisico con una Place de la Concorde deserta attraversata da una donna vestita di rosso in bicicletta. E la donna è Marguerite, che pedala veloce per tornare al chiuso e che, fuori dal suo carcere semibuio, deve stordirsi con il vino per flirtare con un ufficiale della Gestapo un po’ innamorato di lei.
E’ una martire questa donna? Forse no, il martire, di certo, è suo marito, che però, intelligentemente, Emmanuel Finkiel riduce a una silouhette, a una piccola macchia sfocata nel mare di Liguria, a un'immagine osservata da dietro le tende giusto per un attimo. In questo La douleur dimostra un giusto pudore. Laddove invece il film è di una sincerità disarmante, e di una notevole sottigliezza, è nella natura stessa della sofferenza in cui si tuffa e che mette radici così profonde nella protagonista da diventare una necessità, una dipendenza: è il cosiddetto dolore di per sé, una nostalgia svuotata, una mancanza che l'oggetto finisce per allontanarlo, perché la rappresentazione della realtà supera, per appeal e tragicità, la realtà stessa, che in fondo è quasi sempre un po’ banale.
Anche se Marguerite Duras, come molte donne che ebbero il suo stesso destino, fu ripagata dell’attesa e amò altri uomini, La douleur sembra dirci che certi lutti non si superano mai, che certe ferite non si rimarginano, che la guerra porta dolore ma anche distanza, allontanamento dagli altri e perfino da se stessi: dal contatto diretto con le proprie emozioni e con la propria fragilità. E’ una riflessione profonda e arguta, contenuta in un racconto che tuttavia procede lento, troppo lento, accompagnato da una voce fuori campo che lo rende letterario e magari ostico a chi non ha grande familiarità con il cinema francese d'autore.
Carola Proto. Comingsoon.it, 26 aprile 2018