Critica
Tutti i film biografici nascono con un peccato originale, vale a dire l’intento velleitario di riuscire a condensare, nel breve spazio di due ore, un’intera esperienza individuale, di vita, di pensiero e di sentimento. Ragion per cui, anche nei casi migliori, l’effetto finale è di sfilacciamento, di occasione mancata. Sfugge a questo destino, anche se solo parzialmente, Il giovane Karl Marx diretto dall’haitiano Raoul Peck che, pure, ha la buona intuizione di concentrare la propria attenzione sugli anni parigini dell’autore del Capitale, narrando l’incontro con Friedrich Engels agli albori del movimento operaio e la conseguente definizione di un sistema di pensiero che ha segnato in maniera decisiva la storia moderna.
Ricostruzione storica efficace – splendidi il comparto scenografico e la fotografia desaturata, – e buon mestiere per una biografia cinematografica che scampa, per una volta, alla terribile moda dell’attualizzazione ad ogni costo. August Diehl, chiamato a interpretare l’autore del Capitale, è spesso sopra le righe ma la sua è un’interpretazione intesa, ricca di sfumature. Nel ruolo di Jenny Marx, infine, spicca l’ormai lanciatissima Vicky Krieps, reduce dai fasti de Il filo nascosto.
Gianfrancesco Iacono, Cinematografo.it, 3 aprile 2018
Diciamolo subito, che non sarà certo la confezione del film a portarci al cinema sulle tracce del giovane Marx.
Che già dal titolo (identico all'originale, Le jeune Karl Marx), predispone a una visione pedagogica, da prima serata in tv: il filone è quello delle grandi biografie storiche, delle agiografie laiche con interpreti di tendenza, non fosse che il personaggio al centro della "lezioncina" è un uomo che il cinema non era mai riuscito a raccontare. Almeno finora.
Apparso di sbieco solo in un paio di sceneggiati tv, Karl Marx entra qui in scena, per la prima volta da protagonista, nel film di Raoul Peck, con il volto e il corpo di August Diehl. Un interprete in parte ma sopra le righe, a volte troppo compiaciuto, che tuttavia serve a perfezione l'obiettivo: rappresentare Marx come uomo prima che come filosofo, come artista prima che come teorico, raccontarlo arrabbiato, innamorato, umiliato, ubriaco, come fosse una persona normale.
Se la struttura del film è esile, con una regia classica e ricostruzioni che soffrono un budget non adeguato, è potente invece la lettura storica che il regista compie attraverso i personaggi, con Karl Marx e Friedrich Engels (Stefan Konarske, volto azzeccato) trasfigurati nel Giano Bifronte della sinistra: da una parte la faccia creativa, passionale, bohémienne in bilico con l'autodistruzione, dall'altra quella solidamente borghese, oggi diremmo radical chic, che foraggia e sostiene la prima. Ed è chiaro che la simpatia dell'autore è tutta per lo "scapestrato Marx", le cui radici - le sue e quelle del comunismo - per Peck affondano e si nutrono degli ideali di un preciso movimento artistico e culturale: il Romanticismo.
Quella raccontata ne Il Giovane Karl Marx è un'epoca in cui fare politica non è una carriera, ma un percorso fatto di slancio e passione, ricerca di risposte a domande urgenti, elaborazione di ideali necessari. E chi ci si lancia anima e corpo, rischiando la vita e la galera, la povertà o la solitudine, sono ragazzi di poco più di vent'anni (quando La Lega dei Giusti diventa, grazie all'apporto di Marx ed Engels, la Lega dei Comunisti, Marx ha solo 29 anni). È una politica che è davvero discorso della polis, della comunità, e Peck ce lo dice mettendo in scena ogni volta che può filosofi e lavoratori schiacciati l'uno contro l'altro in sale piene di fumo e di sudore, tutti rigorosamente in piedi, a fare la conta delle mani per prendere le decisioni. Una politica in cui a contare sono sì le idee - solo le più forti si propagano per davvero - ma anche le persone che di quelle idee sanno farsi ambasciatrici, portandole fisicamente oltre le frontiere, tessendo reti, scambiando libri, stampando clandestinamente pubblicazioni proibite.
Pedagogico il giusto, certo non rivoluzionario, Il Giovane Karl Marx evita la trappola del film-bignami raccontando, con relativa leggerezza, un'epoca in cui i lavoratori di tutto il mondo si univano senza per forza condividersi. E non erano i like ad accendere le rivoluzioni, ma uomini in carne e ossa. Con i loro appetiti e le loro passioni.
Ilaria Ravarino, Mymovies.it, 12 marzo 2018
Forse è solo suggestione, o paura, o chissà che, ma fin dall’inizio del film, quando partono le didascalie che sintetizzano la situazione politica ed economica dell’Europa del 1843, non puoi fare a meno di pensare che Raoul Peck racconti di ieri per parlare di oggi.
Ma non nel modo banale che si potrebbe immaginare, spingendo sul pedale di come e di quanto la filosofia marxiana e la politica marxista debbano o meno risultare l’unico o il più robusto antidoto ai mali del presente.
No, perché sotto a Il giovane Karl Marx, sotto alla ricostruzione biografica apparentemente così classica, lineare e didascalica, sotto a quello che - filosofia e politica a parte - è un film in costume anche abbastanza avvincente, e che gestisce con grande naturalezza la questione linguistica imprescindibilmente legata a intellettuali tedeschi che vivevano e comunicavano in Francia e in Inghilterra, Peck fa risuonare molte più cose.
Quanto il regista di Haiti fosse in grado di intersecare con naturalezza ed efficacia le esigenze del cinema con quelle della politica e del pensiero, lo avevamo già capito col film in cui ha riportato di scottante attualità la figura di James Baldwin, I Am Not Your Negro.
Dalla questione razziale, quindi, passa a quella sociale ed economica: che nel 1843, con le monarchie assolute aggrappate ai loro privilegi, la crisi economica, le carestie, e soprattutto con il nuovo paradigma imposto al mondo dalla Rivoluzione industriale, era tesissima.
Forse ancora più di quando non sia oggi, dove al posto delle monarchie assolute ci sono i nuovi regimi sovranisti, dove la crisi sembra tutt’ora imperante, e dove non si fanno ancora i dovuti conti con le conseguenze di un’altra rivoluzione non meno dirompente di quella industriale come quella legata al digitale e alla rete. Questo, pare evidente, è uno dei punti sui quali Peck spinge maggiormente nel suo film.Il giovane Karl Marx, che ha l’intelligenza di non fare un s antino del suo protagonista, e di non essere un film “militante” nel senso più scontato del termine, racconta principalmente di come Marx ed Engels cambiarono radicalmente la concezione di comunismo, passando dal principio dell’uguaglianza universale a quello della differenza inconciliabile tra le nuove classi sociali nate con la rivoluzione industriale: padronato e capitale da un lato, proletariato dall’altra.
Certo, Peck non sta a fare espliciti paralleli, ma sarebbe sciocco - come è sciocca buona parte della politica che ci circonda, di qualsiasi segno o matrice ideologica essa sia - non rendersi conto che il regista parla anche di quelle trasformazioni della società arrivate con la rivoluzione digitale di cui ci si ostina a non tenere conto.ù
Capito questo, allora, diventa evidente come le varie scene che compongono Il giovane Karl Marx, con quei passaggi magari vagamente legnosi in cui si fanno incontrare tutti i protagonisti del dibattito filosofico e politico dell’epoca, non sono funzionali solo a un racconto cinematografico, o all’esigenza narrativa di spiegare come Marx ed Engels siano effettivamente arrivati alla stesura del Manifesto del Partito Comunista, ma a qualcosa di più.
Qualcosa che emerge in tutta la sua carica dirompente in una scena chiave, e in maniera più sottile in una che invece passa quasi inosservata nel finale, qualche minuto prima dei titoli di coda sulle note di “Like a Rolling Stone” di Bob Dylan.
Nel primo caso, nel corso di una riunione, Marx irride l’utopista Weitling e, indirettamente, il borghese Proudhon, alterandosi sensibilmente di fronte alle litanie egualitariste di quei proto-comunisti che spiegavano la necessità della rivolta ma non del perché della stessa: per lui era impensabile, infatti, parlare al popolo senza aver strutturato una dottrina costruttiva, una base teorica positiva che fornisse le fondamenta al pensiero e, quindi, all’azione.
Il suo grido “L’ignoranza non ha mai aiutato nessuno” risuona attualissimo alle nostre orecchie, abituate oramai a una politica che dell’ignoranza fa bandiera, e che sembra procedere per slogan e tentativi, con un “profeta ispirato” da un lato e “idioti sprovveduti” dall’altro, senza mai impegnarsi in una costruzione teorica capace di leggere il presente al fine essere propulsiva verso il futuro.
La seconda scena, in apparenza meno esplosiva e assai più nonchalante, vede protagoniste Jenny von Westphalen e Mary Burns, le mogli di Marx ed Engels, mentre i due uomini discutono in riva al mare.
Mary l’unica vera proletaria del gruppo, parla con tranquillità all'amica dei figli non avuti e di quelli che eventualmente potrà dare al marito sua sorella minore, “che non vede l’ora”: e nella reazione imbarazzata e quasi scandalizzata di Jenny c’è la frattura di un nuovo versante politico, quello che passando per l’economia traccia anche il segno di differenze di pensiero che riguardano quello che oggi chiamiamo l’orizzonte dei diritti, e dell’etica sociale e familiare.
Ma quello, forse, è un’altro discorso ancora, e chissà che Peck non ci torni su, a modo suo, in un film ancora da venire.
Federico Gironi, Comingsoon.it, 4 aprile 2018
Un film di Raoul Peck, vale a dire un'opera in cui si mescolano insieme e in parti il più possibile uguali degli elementi biografici, intimi, politici, storici. Ora, nel caso dell'oggetto Marx, ognuno di questi aspetti poteva dare luogo ad un'interpretazione, nella misura in cui l'ordine di presentazione è sempre una maniera di esporre un rapporto di causa a effetto: la vita sull'opera, la politica sulla vita, il carattere sulla politica, la teoria su tutto il resto... È chiaro che in un film, e in particolare in un film in costume, è la parte romanzata a prendere il sopravvento. Fin dalla prima sequenza, però Raoul Peck e il suo sceneggiatore Pascal Bonitzer hanno cercato di riequilibrare il tutto mettendo al centro il lavoro teorico, cosa notoriamente non facile da filmare. (...) il racconto della miseria economica in cui versa l'autore del Capitale, permette al regista di togliere al lato dickensiano il ruolo di traino del film. Ma Peck ha voluto evitare di fare un film pedante. Ha cercato di concentrare il pensiero di Marx in un concetto unico che irriga tutto: l'idea del conflitto. (...) In questo sforzo di piegare le regole del biopic ad un esigenza pratico-teorica il film è ammirevole, così come il tentativo di restituire tutti i lati possibili della personalità di Marx: il genio, l'uomo, il suo pensiero, i suoi limiti - e il suo rapporto speciale con Jenny e con Engels. Ma il risultato è un film che decide di scegliere il meno possibile: evita di farsi schiacciare da un materiale potenzialmente infinito, al prezzo di addomesticarne la potenza.
Eugenio Renzi, 'Il Manifesto', 14 febbraio 2017