Critica
Protagonista della vicenda è il sindaco di Lione Paul Théraneau, che dopo 30 anni di politica attraversa una profonda crisi professionale, ritrovandosi privo di stimoli e idee. Per affrontare questo difficile momento, il politico decide di assumere la giovane filosofa Alice Heimann, con la quale instaura fin da subito un forte legame, basato sulle reciproche differenze e sulla loro affinità culturale. Servendosi dell’espressività del gigante del cinema francese Fabrice Luchini e del talento di Anaïs Demoustier, ai quali affida gli acuti e brillanti dialoghi da lui stesso scritti, Pariser intraprende un discorso profondo e complesso su che cosa significhi davvero fare politica oggi e sui tanti piccoli e grandi compromessi a cui un uomo delle istituzioni deve scendere.
Alice e il sindaco riesce a conquistare lo spettatore grazie a una scrittura intelligente e raffinata, che trova il giusto equilibrio fra umorismo, riflessione sociale e caratterizzazione dei personaggi. Si rimane colpiti e a tratti sconfitti dalla banalizzazione degli ideali politici messa in atto durante disarmanti riunioni a base di marketing e slogan, ma allo stesso tempo si riesce ad apprezzare il vicendevole scambio dei protagonisti. Luchini è abile a rappresentare la rifioritura di una vecchia volpe della politica, grazie alla freschezza e alla curiosità della sua giovane collaboratrice. La co-protagonista Demoustier regge invece il confronto con il più blasonato collega, disegnando un notevole arco narrativo per il proprio personaggio, che, grazie all’esperienza con il sindaco, acquisisce scaltrezza e consapevolezza, da affiancare alla sua purezza politica per affrontare al meglio le gelosie e le rivalità all’interno di uno staff di medie dimensioni.
Alice e il sindaco ha il merito di presentarci con rara sincerità e sano realismo il mutamento in corso all’interno delle alte sfere della politica, lanciando stimolanti riflessioni sulle priorità che le persone di potere sono costretti a darsi e sul peso che queste scelte hanno nella crescente spaccatura fra cittadini e cosa pubblica. In un panorama politico in cui l’insulto prende sempre più il sopravvento sul dialogo e la propaganda social mette spesso e volentieri in secondo piano le idee e i programmi, l’opera di Pariser (gratificata con il premio Europa Cinema Label della Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2019) ha il merito di riconciliarci con il desiderio di una politica che sappia abbinare decisione e riflessione, trovando il giusto compromesso fra favore del popolo e seria volontà di progresso.
Marco Paiano, Cinematographe.it, 19 Giugno 2019
Rivelato nel 2015 da un thriller politico paranoico e promettente (Le Grand Jeu), Nicolas Pariser si impone con Alice e il sindaco come il regista per eccellenza del film politico francese.
La politica, reale o sognata, diventa il terreno di (gran) gioco di un autore audace e ispirato, erede di Rohmer, a cui l'ultimo film fa esplicitamente riferimento. Ammiratore del suo cinema, Nicolas Pariser segue studente un corso del regista alla Sorbona a cavallo del ventunesimo secolo e dimostra la sua ammirazione nel titolo, omaggio limpido a un classico di Éric Rohmer, L'albero, il sindaco e la mediateca. Commedia filosofica sulla ruralità, l'ecologia e le manovre politiche, il film di Rohmer ospitava un giovane Fabrice Luchini, non ancora sindaco socialista (interpretato da Pascal Greggory) ma insegnante nel cuore della Francia rurale.
Lontano dal fare della politica un uso funzionale, gioco di sosia o semplice motore per commedia o thriller, Pariser opta per la frontalità del reale. Alice e il sindaco rende conto di un consiglio comunale, delle forze di potere in gioco ma soprattutto del consolidarsi della relazione filiale tra una giovane normalista e un sindaco consumato. Attraverso la loro interazione, il regista affronta la natura e l'etica della politica, intesa come amministrazione del bene pubblico coerente a un sistema di valori.
Nell'arena politica schiera una giovane donna di lettere, disorientata davanti a un mondo politico che naviga a vista e cerca nella sua giovinezza un po' di carburante per ravvivare la fiamma, e un vecchio lupo, un sindaco in crisi che rappresenta tuttavia l'utopia di un governante (ancora) illuminato.
Se lo stile sobrio di Anaïs Demoustier elude lo stereotipo della generazione Y, appassionata delle nuove tecnologie ma smarrita nel mondo a dispetto degli studi brillanti, Fabrice Luchini non si limita a mostrare quello che è l'incarnazione di un'istituzione, con tutta l'autorità di cui necessita, ma restituisce una sorta di spossatezza che si confonde con la sua volontà di controllo.
Luchini è pienamente se stesso, riconosciamo la sua immagine pubblica ma una gravità inusuale altera il suo istrionismo. Il suo Paul Théraneau possiede una vita propria (sindaco di Lione progressista) e non deve niente a nessun modello francese conosciuto (né Sarkozy, né Hollande, né Macron). Come Luchini sembra aver abitato il cinema di Rohmer con cui condivide la passione per la parola letteraria, l'erudizione dei dialoghi, la riflessione intellettuale, la finezza comica.
Eppure, ancora una volta, la parola luchiniana è impedita, non si dispiega. I suoi personaggi preferiti sembrano essere uomini in crisi, confrontati con la vanità del loro linguaggio, che sia da Rohmer ma anche da Jacquot (Niente scandalo), Ozon (Nella casa), Dumont (Ma Loute) e recentemente Mimran (Parlami di te). Paul Théraneau si aggiunge alla galleria. Il suo sindaco non è un cattivo politico, al contrario, ha delle convinzioni sincere, una volontà di trasmissione e di condivisione, un interessamento generoso ma non ha più nessuno a cui dare credito. Il sorriso che gli regala Alice svanisce presto e lascia il posto alla malinconia delle passioni incompiute che Luchini restituisce perfettamente. La sua voce acquisisce progressivamente una limpidezza, una forma di chiarezza che non gli conoscevamo.
Davanti a lui Alice non è né una fata, né un'amante potenziale. La loro relazione ha il buon gusto di restare platonica e permette al sindaco di fare i conti coi desideri sfumati e di accettare la necessità di chiudere un capitolo. Alice da par suo ascolta e riflette sulla modestia in un mondo megalomane che condanna al limbo i suoi appunti e le sue osservazioni pertinenti. Le sue parole serviranno tuttavia a galvanizzare Théraneu, riacceso (provvisoriamente) in una requisitoria contro i mostri della finanza.
Trascendendo il potere, sollevano insieme la visione della politica, delle parole, delle idee rigenerandosi mutualmente. Rappresentanti di due generazioni confuse e sole, si consolano trovando un tempo per il dialogo, un tempo rubato alle agende compresse, un tempo per (ri)generare la parola politica. Trovare il tempo è anche costruire l'acme del film in un lungo piano sequenza di redazione di un discorso sulla guerra economica e gli enfants della Repubblica, prolungamento trasparente del discorso elettorale di François Hollande a Bourget, un discorso rimasto senza seguito. Il film osa reclamare il diritto al seguito pur siglando una dichiarazione di fulminante impotenza della politica ad agire.
Rappresentazione della crisi democratica che colpisce la Francia, Alice e il sindaco chiude con una domanda, lasciando lo spettatore libero di decidere per la rinascita o per l'abbandono. Con la medesima volontà di gratitudine e di trasmissione che spingeva gli autori della Nouvelle Vague a moltiplicare i piani sui loro libri prediletti, Nicolas Pariser lascia che la sua camera indugi sulle opere consultate da Alice per aiutare il sindaco a ri-pensare. Le ultime parole del film si applicano allora a un personaggio di Herman Melville, Bartleby, lo scrivano che "preferiva di no". È Alice a regalare il libro a Théraneau in fondo al film, spalancando l'abisso della riflessione: come (anche) le migliori volontà sono passate dal "guardare le cose diversamente" a "preferire di no"?
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 11 dicembre 2019