VENERDì 17 gennaio 2020 ore 18.00 - 20.30 (Sala Lampertico) SABATO 18 gennaio ore 18.45 - 21.15 (Sala Lampertico) DOMENICA 19 gennaio ore 16.15 - 18.45 (Sala Lampertico) |
Regia
Kantemir Balagov
Genere
DRAMMATICO
Durata
130'
Anno
2019
Produzione
NON-STOP PRODUCTION
Cast
Viktoria Miroshnichenko (Iya), Vasilisa Perelygina (Masha), Andrey Bykov (Nikolay Ivanovich), Igor Shirokov (Sasha), Konstantin Balakirev (Stepan) |
1945, Leningrado. La seconda guerra mondiale ha devastato la città, demolendo i suoi edifici e lasciando anche i suoi cittadini distrutti fisicamente e mentalmente. Anche se l'assedio - uno dei peggiori della storia - è finalmente finito, la vita e la morte continuano la loro battaglia in ciò che rimane. Due giovani donne, Iya e Masha, cercano il significato e la speranza nella loro lotta per ricostruire le proprie vite tra le rovine.
All’opera seconda, Kantemir Balagov – acclamato prima a Cannes e poi a Torino col suo esordio Closeness – conferma di essere un cineasta di razza: Beanpole è un film che mostra allo spettatore l’intelligenza cinematografica del suo autore e la capacità di cambiare toni, stili e approcci senza perdere in efficacia e personalità. Balagov, non ancora trentenne, è senza dubbio uno dei registi più talentuosi della scena contemporanea, e questo secondo lungometraggio, che segue l'acclamato Tesnota, lo ribadisce e conferma. La storia de La ragazza d’autunno è stata scritta dallo stesso Bagalov, che ha preso a sua volta ispirazione dal libro La guerra non ha il volto di donna di Svjatlana Aleksievič. Entrambi si concentrano su uno dei periodi più bui della storia contemporanea: la seconda Guerra Mondiale e, in particolare, l’assedio di Leningrado. Le due protagoniste si incontrano nuovamente proprio nella città appena liberata, dopo un periodo di separazione dettato dalle esigenze del fronte. Iya (Viktoria Miroshnichenko), alta, timida, strana è impiegata come infermiera nell’ospedale militare della città e si prende cura dei superstiti della guerra con lena e affezione. Masha (Vasilisa Perelygina) è tornata a Leningrado da poco, e non vede l’ora di riabbracciare il figlio Pashka (Timofey Glazkov) affidato all’amica Iya durante i combattimenti. Le aspettative di Masha saranno, però, presto disattese: il bambino non c’è più, la fiducia nella compagna è incrinata, la tragedia è avvenuta. Va posto rimedio, Masha vuole un altro figlio ad ogni costo.
Trama
Critica
Ambientato in Unione Sovietica, alla fine della seconda guerra mondiale, il film racconta di una donna altissima, da cui il soprannome di “spilungona” che dà il titolo al film, e del rapporto con un’altra donna, sua compagna d’armi, forse amante, che le lasciò il figlio durante la guerra e al suo rientro lo trova morto.
Sensi di colpa, riscatti e sentimenti diventano la legna con cui Balagov e Aleksandr Terekhov alimentano il racconto, dando spazio a personaggi e ambienti diversi per farne una grande storia sul prendersi cura degli altri.
Sembra senza un centro definito Beanpole, ma lo si scorge poco a poco, mentre il regista sembra divagare negli ambienti, nei contesti: il centro è il rapporto tra le due donne, le loro ombre che l’affetto reciproco illumina, e il loro rapporto riverbera sugli altri, sui personaggi che volta per volta entrano nel quadro e rendono un racconto intimo un vero e proprio affresco in sedicesimi di un sentimento, quello della pietà e della compassione, in un’epoca in cui i sentimenti erano ancora inariditi dalle bombe.
Balagov prende l’eredità di una tradizione narrativa tra le più grandi di ogni epoca e luogo e la fa sua grazie a un senso del cinema vivo, denso e prezioso, a un respiro dei personaggi che non perde mai la propria umanità anche in mezzo al dolore e alla tristezza assoluta (era anche il maggior pregio del suo film precedente) usando la densità della pellicola per valorizzare espressivamente colori e luoghi, come il verde che fa da sottile filo conduttore emotivo della vicenda.
Beanpole è un film profondo, intenso, che a volte pare perdersi ma che ha il pregio di un occhio e di un cuore dietro la macchina da presa capaci di comunicare qualcosa di universale eppure rarissimo come l’empatia, la voglie di occuparsi e voler bene a qualcun altro, sia un figlio o un estraneo.
Un sentimento da rispolverare mentre siamo inariditi dal mondo.
Emanuele Rauco, Cinematografo.it, 16 Maggio 2019
Difficile pensare ad un uso del colore più elegante, eloquente ed emozionante, o ad un cinema che trasudi altrettanta verità, tanto che pare di sentirne l'odore, l'aria intrisa di polvere, gli sbalzi di temperatura tra esterni e interni, il leggero graffio della lana grezza sulla pelle.
In anni in cui il contenuto è tornato al centro dell'interesse dei registi, e i loro virtuosismi si manifestano soprattutto nella ricerca di nuove formule del racconto, Beanpole riporta prepotentemente la forma in primissimo piano, rischiando la maniera, a volte sì, ma costruendo, nelle scene chiave, momenti indelebili di grande cinema.
La prima parte del film è la migliore: Iya, la "giraffa", è ancora al centro della scena, col suo corpo-mistero, strumento di pace e arma di morte, e la strana coppia che forma con il bambino, vittima sacrificale e metafora di un'innocenza impossibile, contiene tutta l'emozione che il film poi non offrirà più, infilando la via algida della relazione morbosa e manipolatoria, che è propria della coppia Iya-Masha. Ma le scene dell'ospedale e della vita domestica, nelle cucine condivise e nei pianerottoli di passaggio, e il gioco che scolora nella tragedia, non si dimenticano e nutrono l'intero film.
Quel che viene dopo riporta il discorso sul dramma storico, a un dopoguerra che ha le sembianze di un purgatorio, in cui tutto ha un prezzo altissimo. Si lotta per risorgere dalle ceneri ma il passato non è ancora tale e l'impaccio, di cui Iya è immagine simbolica, è quello di chi deve imparare a vivere in un mondo nuovo e dimenticato: le donne, in particolare, che portano sul volto le rovine più pesanti della guerra e al loro interno le perdite più traumatiche.
Alla visione del regista contribuiscono naturalmente il lavoro certosino e autoriale della direttrice della fotografia, Ksenia Sereda, e dello scenografo Sergei Ivanov, oltre che l'apprendistato di Bagalov presso Sokurov, maestro di sguardo e di bellezza.
Marianna Cappi, Mymovies.it, 29 novembre 2019
Quel che accade tra le due protagoniste, nelle loro menti e nei loro corpi, si intreccia ad un gioco perverso che aspira – sì – a una nascita, ma che denigra la dignità delle vite già esistenti. Un gioco al massacro, fisico, emotivo, sentimentale che persiste nei meccanismi della guerra anche quando è finita.
Il rapporto morboso tra i due personaggi principali è raccontato con una cura totale del dettaglio e dell’estetica. Tra gli elementi che più risaltano all’occhio dello spettatore, la fotografia di Kseniya Sereda che tinteggia tutta la pellicola nei toni dell’ocra e del verde. In particolar modo, questo secondo colore assume un significato molto pregnante all’interno della storia, andando a sottolineare i momenti in cui i personaggi intravedono nel futuro più o meno lontano una possibilità di riscatto. Un lavoro davvero notevole, che soccorre il film anche quando lo script fa pesare la sua dilatazione.
La scelta del casting connota il film come contemporaneo, fresco, universale. I volti delle due protagoniste non ricalcano canoni legati al periodo storico raccontato, ma puntano tutto sulla loro particolarità, che riesce a renderle espressive anche con movimenti minimi e battute ridotte all’osso. I lunghi silenzi e lo stile registico quasi da cinema del reale permettono una vicinanza totale ai personaggi che lavorano su un’interpretazione asciutta, ridotta ai minimi termini. Gran parte del racconto, anzi, è affidato ai loro corpi: mutilati, immobilizzati, denutriti, sofferenti. Il burattinaio Bagalov sceglie l’altissima Viktoria Miroshnichenko per la sua Iya, la cui prerogativa fisica dà il titolo originale al film (Beanpole, traduzione letterale dell’originale Дылда significa, appunto, spilungona). Così, alta e allampanata, Iya è impenetrabile e chiusa, apparentemente incapace di provare empatia. La sua fisicità, portandola su un piano differente da quello di tutti gli altri personaggi e – specialmente – da quello della sua amica Masha, accentua la sua distanza emotiva dal resto, rendendo il suo personaggio sottilmente inquietante.
Viceversa, la rossa Masha dallo sguardo scaltro e sensuale, parla a voce alta dell’alienazione femminile nella guerra. Come si spiegherà in una scena-madre del film, La ragazza d’autunno svolgeva mansioni di retrovia, dando compagnia e conforto sessuale ai soldati che rientravano dal combattimento. Il corpo della donna diventa dunque uno strumento politico e militare, oggettivato fino all’ultimo organo per il supporto alla Nazione. Tornando a casa, Masha non ha più la possibilità di perdonare e superare, ma si comporta da carnefice, replicando la crudeltà che gli è stata inflitta.
Bagalov affronta, dunque, il tema dei veterani e della persistenza della guerra nella loro mente e nelle loro azioni da un punto di vista piuttosto originale, smontando ogni retorica dell’eroe (o dell’eroina) e mostrando le macerie fisiche ed esistenziali di uno dei più grandi orrori dell’umanità. Inserendosi in un momento storico molto fertile per la trattazione di tematiche legate al genere e alla parità, La ragazza d’autunno di Kantemir Balagov è un film non sempre semplice da seguire, ma affascinante e suggestivo che non deluderà un pubblico sensibile e preparato.
Francesca Romana Torre, Cinematographe.it, 7 Gennaio 2020
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