VENERDì 20 dicembre 2019 ore 20:30 (Sala Lampertico) SABATO 21 dicembre ore 16.30 - 18.30 - 20.30 (Sala Lampertico) DOMENICA 22 dicembre ore 16.15 - 21 (Sala Lampertico) |
Regia
Elia Suleiman
Genere
COMMEDIA
Durata
97'
Anno
2019
Produzione
MARTIN HAMPEL, THANASSIS KARATHANOS, MICHEL MERKT, SERGE NOËL, LAURINE PELASSY, ELIA SULEIMAN, EDOUARD WEIL PER ABBOUT PRODUCTIONS
Cast
Ali Suliman (Mad man), Elia Suleiman, Holden Wong, François Girard (Poliziotto), Robert Higden (Polizziotto), Alain Dahan |
La comicità è fatta di tanti generi diversi. In questi giorni trionfa al box office Cetto c'è senzadubbiamente, esempio di comico farsesco e un po' sboccato. Si colloca all'estremo opposto l'umorismo gentile del Paradiso probabilmente di Elia Suleiman, che a Cannes ha vinto un Premio speciale della Giuria. Sulla Croisette il regista palestinese era stato altre volte; però questo è il suo primo film dopo dieci anni di silenzio. Elia vi interpreta se stesso, un cineasta che, stanco di vivere nella sua Nazareth, tra vicini tristi e militari onnipresenti, sceglie l'esilio alla ricerca di un nuovo Paese che lo accolga. Ovunque vada, però, gli sembra di essere ancora nella terra d'origine. A Parigi esercito e polizia sono ovunque (per le vie sfilano perfino i carri armati: è il 14 luglio). I controlli degli aeroporti sembrano check-point, quando il regista prende il volo per New York. Dove non trova una situazione migliore: proliferazione delle misure di sicurezza per paura degli attentati, civili che circolano armati anche al supermarket. Tutto il mondo è diventato una grande Palestina? Eppure - ecco il paradosso - il viaggiatore viene percepito ovunque come un corpo estraneo. Il tassista newyorkese gli regala la corsa perché non aveva mai visto un palestinese. Il produttore francese rifiuta il suo soggetto perché non lo trova "abbastanza palestinese". E quando Gael Garcia Bernal lo presenta a una produttrice come un regista comico che progetta un film sulla pace in Medioriente, lei commenta: "Questo è già abbastanza comico". A suo modo, Il paradiso probabilmente è anche un film politico; ma - come ha detto lo stesso Suleiman - «piuttosto che focalizzarsi su una visione d'insieme, di quelle che i media non cessano mai di ammannirci, si concentra su momenti banali, mediati, quelli che di solito restano fuori campo». Testimone (quasi) muto, Elia osserva assieme a noi quella commedia dell'assurdo che è diventato il mondo. In ciò, l'unico riferimento sono i film di Jacques Tati, rari come i suoi, fatti di "campi larghi" e ariosi. Come attore, invece, il suo modello è l'impassibilità di un Buster Keaton precipitato in un mondo ormai incomprensibile. Scandito per inquadrature fisse, il film è intinto in un humour poetico fatto di gag surreali, a volte "gratuite" (vedi quella del passerotto che disturba Elia saltellandogli sulla tastiera del computer). Lo sguardo di Suleiman sembra tranquillo, ma è solo apparenza: il suo film è un grande interrogativo sull' identità, l'appartenenza, la "casa" di noi naufraghi del millennio. C’è qualcosa di speciale nel cinema di Elia Suleiman che comincia in quella capacità di inventare nelle proprie immagini una forma espressiva sintonizzata a una condizione esistenziale in cui la rabbia soffocante dell’immobilismo (politico, sociale) si manifesta sempre nella lente dell’ironia, nell’umorismo disperato e silente di paradossi e violenze. Forse tutto parte dalla sua biografia, dalla nascita a Nazareth, nel 1960; arabo in territorio israeliano, cristiano tra i musulmani, lascia presto il suo paese, vive a Londra e poi a New York anche se la Palestina è il punto di partenza e il riferimento di tutta la sua opera che non cade mai però nella trappola – spesso tesa agli artisti che provengono da realtà «difficili» – dell’«iconografia del conflitto». Nei suoi film lo stereotipo dell’immaginario palestinese – quello da vendere sui mercati internazionali – non esiste, anzi, viene polverizzato, cancellato, sin dal primo film, Cronaca di una scomparsa (1996) destabilizzando anche chi – in occidente come in oriente – vi si crogiola come marchio identitario. Non ci sono «buoni» e «cattivi» nelle sue storie ma c’è invece il desiderio di una prima persona consapevole, di una libertà – nell’immaginario e dunque nella realtà – di essere palestinese e di raccontarsi utilizzando il proprio linguaggio, una «prima persona» che non deve compiacere nessuno. «Nazareth, Palestina». Sono le parole pronunciate da Elia Suleiman Il paradiso, probabilmente, di cui è protagonista e regista. Il tassista newyorkese non crede alle sue orecchie: «Palestinese? Mai visto uno! Palestina...? Nazareth, Gesù?». Vaghe e storpiate coordinate su un fazzoletto di terra per lui remoto e ignoto come la Luna. Per Suleiman, che lì è nato, una terra promessa negata e violata. La patria di un artista senza patria, che giorno dopo giorno registra con doloroso stupore il saccheggio reale e metaforico del suo giardino di limoni da parte di un vicino invadente. Finchè, stremato, Elia si arrende. Messe in valigia le sue armi letali, quell’ironia e gusto dell’assurdo rubati a Buster Keaton e a Tati, parte per cercare altrove il paradiso di una normalità preclusa.
Critica
Roberto Nepoti, La Repubblica, 1 dicembre 2019
Il Paradiso probabilmente – menzione speciale della giuria allo scorso Festival di Cannes, è il ritorno del regista dopo dieci anni – l’ultimo suo lavoro era stato Il tempo che rimane (2009) – ed è un grande film, in cui come raramente capita gli interrogativi del nostro tempo trovano una espressione visibile. Diviso in tre capitoli, ripropone il suo personaggio, da lui interpretato, ES, un doppio lunare, di ispirazione busterkeatoniana che osserva quanto gli accade intorno, espone i suoi sentimenti e nelle inquadrature frontali, che guardano al cinema muto, li trasforma in frammenti di realtà avventurandosi tra le contraddizioni del suo Paese e quelle del mondo.
Cristina Piccino, Il Manifesto, 5 dicembre 2019
Premiato a Cannes con una menzione speciale il film, nelle sale dal 5 dicembre, è una commedia surreale costellata di gag dal retrogusto amarissimo. Perché dietro l’apparenza smagliante di Parigi e New York, le ragazze dalle lunghe gambe scoperte, i giardini curati, i negozi luccicanti, affiora una tensione che sembra simile a quella che l’esule si è lasciato alle spalle. «Se nei miei film precedenti mostravo la Palestina come microcosmo del mondo, stavolta tutto il mondo è Palestina» (…).
Giuseppina Manin, Corriere.it, 4 dicembre 2019
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