Critica
Girata nel quartiere Shanghai di Baku, distrutto poco dopo le riprese del film, una favola che rinuncia ai dialoghi per raccontare il viaggio verso la felicità di un eroe senza qualità, al di fuori della sua innata dolcezza.
Un tempo quella di The Bra - Il reggipetto si sarebbe definita "poesia per immagini", riconoscendo nel cinema un'implicita dimensione prosaica che si esprime principalmente attraverso la parola. Oggi la si chiama "poetic comedy" (dal pressbook del film), ma la sostanza non cambia: The Bra rinuncia ai dialoghi - ma non ai suoni d'ambiente, alle urla e alle risate dei personaggi - per creare un'atmosfera illusoria, fuori dalla realtà e dal tempo, che interpreta visivamente situazioni e sentimenti della vita quotidiana. Gli schemi ritmici e stilistici della scrittura sono replicati dall'uso formale del montaggio, che crea effetti di contrappunto e rima fra le scene, e dalla musica, che trasmette stati d'animo ed emozioni, oltre a dettare il tono del racconto.
Lo stesso Veit Helmer, regista tedesco da tempo impegnato a realizzare film negli ex territori asiatici dell'Unione Sovietica (qui siamo in Azerbaigian come in Absurdistan, mentre il precedente Baikonur erano girato in Kazakistan), ha dichiarato di aver realizzato un film senza dialoghi perché considera «il parlato un modo per raccontare storie non-filmico»: da qui l'idea di eliminare la parola come espediente comunicativo, creando un mondo che si esprime con una forma "altra", privo di elementi realistici o verosimili.
In certi momenti l'effetto sta tra il cinema muto e una leggerezza quasi alla Tati, ma il regista indugia nella creazione di un'atmosfera sognante e pittoresca, accentuata dalle atmosfere del quartiere Shanghai e del villaggio Xinaliq, antichissima meraviglia del Caucaso. Il rischio è quello di una "carineria" alla lunga estenuante, tra le onnipresenti musiche di Cyril Morin, gli ambienti un poco surreali (i fili della roba stesa al passaggio del treno, i colori della biancheria, la gente che gioca a dama sulle rotaie, la responsabile della sala comandi della stazione che scherza con gli scambi ferroviari), un feticismo perverso ma innocente, l'evocazione anacronistica di un passato dal fascino vintage e non da ultimo la mimica degli interpreti - il protagonista Miki Manojlovic, le aspiranti proprietarie del reggipetto Paz Vega, Maia Morgenstern e Chulpan Khamatova, l'immancabile Denis Lavant - chiamati a dare forma visibile alla natura dei loro personaggi.
The Bra - Il reggipetto è la storia di una ricerca ossessiva (destinata a concludersi con l'elogio della rinuncia e dell'amore silenzioso), gestita secondo una messinscena anch'essa frutto di un'ossessione: l'ossessione per un cinema d'autore vecchio stampo, eppure ancora riconoscibile, che sembra provenire da una terra ignota. Ma oggi che al contrario nulla desta più la sorpresa dello spettatore, quella di The Bra è una terra semplicemente assurda, inesistente e universale, dove l'amore e la gentilezza possono ancora farsi largo tra le case di un quartiere scomparso...
Roberto Manassero, Mymovies.it, 29 ottobre 2019
Potremmo scegliere un'espressione audace come Reggipetto caput mundi per iniziare la nostra recensione di The Bra - Il reggipetto, il nuovo film diretto dal regista tedesco Veit Helmer, in uscita dal 14 novembre nei nostri cinema grazie a Lab 80 film. Un'espressione che, come il film, unisce l'ironia all'intelligenza, la leggerezza alla complessità.
Ambientato quasi completamente in una zona ormai demolita dell'Azerbaigian, ristretta e chiusa e così affascinante e piena di vita, la fiaba senza dialoghi di un macchinista di un treno che decide di riportare un reggipetto perduto alla proprietaria sconosciuta ci viene raccontata tra commedia e dramma senza dimenticare la complessità dei rapporti umani.
Vero e proprio personaggio del film, il quartiere Shangai svolge un ruolo importante nella vicenda a partire dalla sua particolarità di essere un quartiere nato intorno ai binari del treno e dove lo stile di vita è basato su questo. La trama del film nasce proprio da un viaggio del regista che, rimasto affascinato dal posto, decise di girare in loco. Oggi, purtroppo, il quartiere è stato demolito e ciò rende il film una delle ultime testimonianze di quel posto. Adattando uno stile di regia semplice, senza virtuosismi, quasi documentaristico, Helmer ci accompagna insieme a Nurlan per le strade di Baku mostrandone, in maniera sottile, la cultura. Nonostante il film sia composto da un cast di professionisti come Paz Vega, Maia Morgenstern, Chulpan Khamatova, Miki Manojlovic e Denis Lavant, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a persone del posto con tutta la loro umanità.
Come in tutte le fiabe, la storia è una scusa per interrogarsi sull'animo umano, sui gesti quotidiani, sulla gentilezza e la cattiveria dell'uomo, sulla solitudine e il bisogno di essere amati. Per questo motivo appare una scelta sensata e coerente aver girato il film senza dialoghi prediligendo le qualità pure del cinema come il semplice connubio d'immagine e suono. Se è vero che per gran parte del film i dialoghi sarebbero risultati pleonastici, non si può fare a meno di notare che in certi frangenti la loro assenza mette in mostra la scrittura artificiosa di alcune scene facendole apparire innaturali e, nel peggiore dei casi, capaci di interrompere la nostra sospensione dell'incredulità.
Nonostante questi momenti, gli attori, capaci di usare la gestualità del loro corpo senza risultare parodistici o esagerati, sono in grado di catalizzare continuamente l'attenzione dello spettatore anche se la storia raccontata, perfetta per un meraviglioso cortometraggio, sembra non reggere il peso della durata di un lungometraggio.
Matteo Maino, Movieplayer.it, 14 novembre 2019