SABATO 1 e DOMENICA 2 dicembre ore 18 e 20.30 (Sala Lampertico) |
Regia
Edoardo De Angelis
Genere
DRAMMATICO
Durata
90'
Anno
2018
Produzione
ATTILIO DE RAZZA, PIERPAOLO VERGA PER TRAMP LTD., O' GROOVE, MEDUSA FILM
Cast
Pina Turco (Maria), Massimiliano Rossi, Marina Confalone, Cristina Donadio, Marcello Romolo |
"Se devo morire, voglio morire come dico io". Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un'esistenza trascorsa un giorno alla volta, senza sogni ne' desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. E' proprio a questa donna che la speranza un giorno tornera' a far visita, nella sua forma piu' ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perche' restare umani e' da sempre la piu' grande delle rivoluzioni.
A Castel Volturno non ci sono più i nomi delle vie. Le targhe sono state cancellate, le strade dissestate, le case sventrate. In questa stazione balneare fantasma, a nord di Napoli, da troppo tempo nessuno raccoglie più la spazzatura, la posta è chiusa, la scuola, la chiesa e il commissariato pure. La fine del mondo ha il nome e l’aspetto di Castel Volturno, un comune della provincia di Caserta sepolto da cumuli di spazzatura, strade deserte e prostituzione. Qui comanda la mafia, con i suoi traffici illeciti di bambini, e vive Maria, figlia dell’assenza della madre e del luogo, che ogni giorno traghetta da una parte all’altra le povere anime delle donne con in grembo la vita, e non c’è sogno o possibilità di fuga in questo purgatorio terrestre: semplicemente si gira a vuoto aspettando che sorga e tramonti il sole (ma nemmeno la luce riesce a filtrare per quante nubi affollano il cielo), in un circolo “viziato”, terrificante, dove ogni gesto suggerisce miseria e morte. L’unico tocco di colore è dato dall’insegna rossa luminosa che delimita il confine tra il mondo reale e l’universo sospeso sul fiume Volturno; culla della criminalità e tomba dei silenzi. La speranza a Castel Volturno, fra il mare sporco e increspato e il fiume scuro e limaccioso, è un vizio, un lusso da ricchi, un gesto rivoluzionario che sottintende una possibilità di cambiamento, un fuori-pista o una stradina secondaria da percorrere lontani da quelle pozzanghere nelle quali una ragazza con la camminata da uomo e un pitbull al guinzaglio (e un cappuccio in testa per schermarsi dal mondo) cammina a grandi passi nonostante i pantaloni aderenti. La ragazza, Maria, è una bambina violata nel giorno della prima comunione e salvata da annegamento, è una figlia della disperazione e di una madre catatonica, è un'anima allapparenza persa che si muove instancabilmente in un anti-inferno, in un limbo coperto di rifiuti dove la gente aspetta che un giorno finisca e ne ricominci un altro identico al precedente.
Soggetto: Edoardo De Angelis, Umberto ContarelloTrama
Critica
A Castel Volturno non c'è più il diritto, non c'è lo Stato. La metà degli abitanti sono clandestini africani che occupano stabilimenti degradati in cui prospera, col traffico di cocaina e la prostituzione, una nuova schiavitù: la maternità surrogata. Una gestazione per altri che mutua le donne in contenitori, privandole della dignità, della libertà, della maternità.
In questo luogo moribondo, bagnato dal Volturno e infestato da orrore ordinario, Edoardo De Angelis pianta come un fiore la speranza. Al cuore di un décor crudo e dentro giorni che si avvicendano e si assomigliano, c'è Maria, colpevole, complice, vittima. Infinitamente sola, Maria sembra aver preso tutta l'ombra del mondo, è una marginale, sociale ed esistenziale, che non segue nessuno progetto di felicità fino al giorno in cui trova nella fuga di una ragazza più disgraziata di lei e nell'incontro con un giostraio l'occasione e l'opportunità di osservare le cose della vita da un angolo diverso. La prospettiva dell'umanità.
Caronte impassibile di anime gravide e di un crimine mascherato e venduto come atto d'amore, Maria si scopre improvvisamente incinta e sente crescere col ventre il bisogno di essere migliore, di cercare una forma di moralità. Con pudore e discrezione, De Angelis fruga sul volto della sua protagonista, che ha la solidità terrena di Pina Turco, e porta a galla la sua anima. Senza bisogno di ricorrere a colpi di scena, a sentimenti divoranti, a trucchi drammaturgici sfacciati.
Tutto nel film si ripete, come in un giro di giostra, i viaggi, i silenzi, le attese, le angosce, i dialoghi. Non si va mai da nessuna parte nel Vizio della speranza. Si gira a vuoto, scivolando lungo un fiume che sembra essere la cifra stilistica dell'autore e alzare la portata del suo cinema. Un cinema che scorre tra il Volturno (Indivisibili, Il vizio della speranza), rapido, profondo e torbido e il Sebeto (Perez.), nascosto, indisturbato, ingoiato dalle viscere.
Non è un film perfetto Il vizio della speranza, ostinato a sancire come miracolo il mistero della vita. L'epilogo e la chiosa in fondo ai titoli di coda esagerano il concepimento prodigioso di Maria e risultano forzatamente solenni rispetto alle premesse 'apocrife' e narrative sviluppate in precedenza: cercare e scoprire la vocazione umana e terrena di "Maria". Quella che la regia di De Angelis adempie e la sceneggiatura, scritta con Umberto Contarello, disattende, inseguendo un incorreggibile afflato di trascendenza. Come se il soggetto imponesse la ridondanza, come se nello sguardo di Maria non ci fosse già tutto il senso del sacro, l'interrogazione e l'umiltà, l'attesa e la disponibilità. La sua ambiguità accentua da sola il carattere potenzialmente spirituale del personaggio senza bisogno di ridursi a riti esteriori. Perché la fede è qualcosa che va oltre, è una domanda che nasce da dentro e può arrivare a esprimersi anche inseguendo i percorsi più impensati.
L'essenziale non passa per la parola ma per le immagini che De Angelis bagna di una luce sorda e crepuscolare, una penombra fisica e morale che domina il film. Un mondo tra ombra e luce, tra Gaeta e Napoli, indistinto e ritirato in se stesso, inghiottito a metà a smentire la genesi ("E Dio separò la luce dalle tenebre"). Spicchio di America partenopea e utopistica riviera rovesciata in ghetto per gli espulsi della metropoli napoletana, il litorale domizio, già battuto in Indivisibili, diventa uno degli elementi essenziali dell'universo figurativo di De Angelis. Una geografia ideale che coglie i cambiamenti più significativi del paesaggio antropologico italiano, sotto un cielo basso e la partitura africana di Enzo Avitabile, che canta l'integrazione e la solidarietà per gli oppressi.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 19 ottobre 2018
Dopo tre lungometraggi, tutti girati nelle periferie della Campania e nei suoi angoli più disperati, la coerenza di Edoardo De Angelis inizia a farsi vedere, e Il vizio della speranza contribuisce a rendere evidente il percorso di un regista che sa come raccontare storie inverosimili ambientate in contesti realistici con sguardo originale, affamato di carne e polvere, di bellezza e degrado. Stavolta abbandonando l’immaginario fantastico che aveva caratterizzato Indivisibili e abbracciando la simbologia cristiana in chiave contemporanea: Maria è il miracolo della nascita, come l’Immacolata concezione, e incubatrice dell’umanità stessa racchiusa nei luoghi dimenticati da Dio. In questo caso, il fazzoletto di spiaggia e la palude che circondano Castel Volturno.
De Angelis si mette alle (e sopra le) spalle della protagonista, interpretata da Pina Turco, e la insegue instancabilmente lungo tutto il film, con carrellate dense di dolore e riprese che lasciano il segno; sulla pelle di chi questa esperienza la vive dentro lo schermo e di chi la riceve impassibile, senza avere la forza di reagire. Ma se ci fosse stata una maggiore corrispondenza tra le meravigliose trovate della messa in scena e le intenzioni della sceneggiatura, Il vizio della speranza avrebbe rappresentato qualcosa di unico nel panorama cinematografico italiano (così come lo era stato in parte Indivisibili) e universale, anche rifiutandone l’accezione negativa del termine.
Cecilia Strazza, Cinefilos.it, 26 Ottobre 2018
Questo limbo Edoardo De Angelis lo racconta d'inverno, un inverno rosso come le luci di una vecchia insegna e di una giostra in disuso, blu come la notte e bianco come il cielo in certe giornate senza sole. E’ durante un inverno che qualcosa cambia nell’insignificante routine di un Caronte in gonnella e dai lunghi capelli bruni. Già, perché con il traghettatore di anime dell’antica mitologia greca la nostra eroina senza trucco ha in comune frequenti navigazioni a bordo di un'imbarcazione di fortuna, solo che ne Il vizio della speranza il nocchiero trasporta donne innocenti anziché dannati, per la precisione madri sul punto di partorire che non vedranno mai i loro bambini, che saranno venduti a chi un figlio non può averlo e può comprarselo. Ecco, proprio come in Indivisibili, il regista campano sceglie di concentrarsi sullo sfruttamento del corpo femminile, che da fenomeno da baraccone diventa prezioso involucro, contenitore riempito e poi svuotato e di nuovo riempito una, due, cinque volte, finché c’è tempo, finché non arrivano gli assistenti sociali o non sopraggiunge un tumore che strappa via la vita, finché la complice per eccellenza di questo orrore malavitoso non si ravvede, non alza la testa, non comincia a coltivare, appunto, il vizio della speranza.
Il film di De Angelis narra le conseguenze di questa presa di coscienza in seguito a una prodigiosa scoperta, e si sofferma su un viaggio verso il calore, sul distacco dal male - rappresentato da una zia ingioiellata che somiglia alla più infame strega delle favole - per raggiungere il bene, individuato nell'unico uomo buono che abita il purgatorio nel quale la vicenda si svolge. E tuttavia, nonostante l’ancestralità del mondo descritto e dei personaggi che lo popolano, è tutto reale quello che Edoardo De Angelis ci racconta con il suo personalissimo stile. La maternità surrogata è davvero l'ultima diabolica invenzione della Camorra, e Castel Volturno non è un’amplificazione grottesca della realtà.
No, nel quarto lungometraggio del regista di Mozzarella Stories quel "luogo di confine" multietnico non è un'attrazione horror di un dismesso parco a tema, è l'Italia, la "nostra povera Italia, sconfitta, derelitta ma pulsante, pulsante di vita, di una nuova vita che grida: "ci sono anche io!”, nonostante gli stracci, la sporcizia e un parto che potrebbe concludersi con la morte. Edoardo de Angelis filma il suo angolo di litorale Domizio utilizzando un linguaggio visivo a volte crudo e a volte evocativo, e non staccandosi quasi mai dalla moglie Pina Turco, futura madre-coraggio che alla disperazione preferisce la grinta e che ha lavorato di sottrazione così come le eccellenti Marina Confalone e Cristina Donadio. E come Massimiliano Rossi, che in un'invocazione alla Vergine Maria arricchisce il film significati simbolici e allegorici.
C’è tanto ne Il vizio della speranza, che ci è sembrato meno a fuoco di Indivisibili, ma più potente, in primis perché sorretto da un "robusto" personaggio principale che lo contamina felicemente con la sua feroce energia, e poi perché accompagnato dalla meravigliosa musica di Enzo Avitabile. Fra suoni tribali, aperture orchestrali e ballate napoletane, la sua colonna sonora è l'elettrocardiogramma del film, un film che scava dentro e che fa male, ma che ci riconcilia con la vita e con la Terra, la Terra che, guarda caso, è femmina. Proprio come il pitbull di Maria.
Carola Proto, Comingsoon.it, 19 ottobre 2018Altre informazioni
Fotografia: Ferran Paredes Rubio
Montaggio: Chiara Griziotti
Costumi: Massimo Cantini Parrini
Suono: Paolo Amici, Vincenzo Urselli - (mixer), Fabrizio Quadroli, David Quadroli
Altri titoli: The Vice of Hope
credits: