Critica
C’è più dolore che gloria in questa opera magnifica, diversa da quelle a cui ci ha abituato Pedro Almodóvar, regista di Tutto su mia madre, Parla con lei e Volver.
Che pur raccontando un dramma, e con la potenza di cui è maestro, lo fa con stile sobrio, quasi asciutto. Con un linguaggio inizialmente didascalico ci introduce e poi scaraventa nella vita di Salvador (Antonio Banderas), che assomiglia a lui come una goccia d’acqua.
Il protagonista è un uomo stanco, che annaspa, a malapena galleggia. Ha un blocco creativo, la paura di non riuscire più a girare un film.
La storia è ambientata in tre periodi diversi: l’infanzia negli anni ‘60, l’età adulta negli anni ‘80 a Madrid dove Salvador si è formato durante il movimento di rinascita culturale madrilena, e infine nel presente, con Salvador che sta sprofondando nella depressione. Tanto che incomincia a drogarsi, pur sapendo di intraprendere un sentiero molto pericoloso.
Federico (Leonardo Sbaraglia) è un altro fantasma da affrontare, non è il ragazzo incontrato decenni fa, con cui ha avuto una relazione importante e che ha dovuto suo malgrado allontanare. Ora ha una famiglia, una compagna.
Nel dipingere questo mondo capovolto, di desideri perduti, rimpianti rimossi, emozioni soffocate, in cui si ritrova Salvador, con una madre più dura (prima Penelope Cruz poi Julieta Serrano) rispetto a quelle che hanno popolato le sue opere, Almodóvar abbandona il melodramma ma non le tinte vivaci, che appartengono al suo passato e a quello del suo alter ego.
E saranno i ricordi di bambino, adolescente innamorato della vita, a salvarlo, a dargli la forza di tornare a scrivere e soprattutto il desiderio di riprendere in mano il suo destino.
Un percorso terapeutico attraverso il processo creativo, un’opera maestra piena di citazioni, cinematografiche e personali. Con Banderas strepitoso e una galleria di prove attoriali sensazionali.
Marina Sanna, Cinematografo.it, 17 maggio 2019
Come Federico Fellini aveva trovato in Marcello Mastroianni chi poteva tradurre al meglio il se stesso cinematografico così Pedro Almodóvar ha nell'amico e attore Antonio Banderas una persona a cui può trasferire il proprio sentire più intimo con la certezza di non essere mai tradito, neppure in un incontrollato battere di ciglia.
Perché non è facile mettersi a nudo dinanzi a milioni di persone raccontando senza edulcorazioni il proprio periodo di dipendenza dall'eroina così come lo stretto legame con una figura materna la cui perdita ancora si fa sentire in profondità. Si parla di un film rinnegato e poi riabilitato per finire con il prenderne di nuovo le distanze in Dolor y gloria. Si mostra come il teatro, con il suo contatto diretto con il pubblico, abbia una valenza ancestrale che conserva in maniera misteriosa anche quando è il cinema che lo mette in scena. Perché sicuramente questo è un film a cuore aperto in cui la speranza di poter rinascere dal liquido salvifico ma anche amniotico è dichiarata già in apertura ma è anche una matura e complessa riflessione sul cinema e sulla sua possibilità di esprimere ciò che può sembrare quasi indicibile.
Quanta consapevolezza dello scorrere del tempo si avverte nell'incontro con l'amore di giorni che furono in cui gli sguardi e i gesti trasmettono l'interiorizzazione del dono di un'esperienza che ha coinvolto entrambi i partner facendoli maturare sul piano sentimentale! Ma quanto anche, contemporaneamente, si sperimenta il 'sentire' che il passare degli anni non può fare altro che conservarne il ricordo, senza sperare in un riaccendersi della passione di un tempo, in un presente che ha favorito percorsi differenti. Il bambino che un tempo insegnò a leggere a un giovane muratore, giunto sulla soglia dei settant'anni aiuta anche noi a 'leggere' offrendosi come un libro aperto in cui compitare le lettere dell'alfabeto più nascosto: quello dei sentimenti.
Giancarlo Zappoli, Mymovies.it, 18 maggio 2019