Critica
Mettete Rami Malek in cima alla lista dei favoriti per l’Oscar. Nei panni di Freddie Mercury, voce leggendaria dei Queen, la star di Mr. Robot compie un miracolo e azzecca il look, l’anima e le movenze di Mercury, morto nel 1991 dopo una lunga battaglia con l’AIDS. Sfortunatamente, il film di cui è protagonista ha avuto una gestazione complicata. Sacha Baron Cohen doveva interpretare Mercury, poi ha lasciato il progetto per divergenze creative. Poi il regista Bryan Singer, licenziato per le continue assenze sul set (al suo posto è intervenuto Dexter Fletcher, non inserito nei titoli di coda).
Detto questo, Bohemian Rhapsody prende forma come la storia di Mercury, dagli inizi all’aeroporto di Heathrow fino alla fondazione dei Queen con il chitarrista/studente di fisica Brian May (Gwilym Lee) e il batterista/studente di medicina Roger Taylor (Ben Hardy). La sua prima audizione fu in un parcheggio e, con una velocità vertiginosa il film ci porta subito al primo concerto con John Deacon (Joseph Mazzello), ultimo arrivato al basso. Timido lontano dal palco e confuso dai suoi sentimenti per Mary Austin (Lucy Boynton) e dalla sua crescente attrazione per gli uomini, Mercury era un uomo riservato e in conflitto con se stesso. Ma quando si siede al piano per suonare Love of My Life e mostrare il suo amore, le emozioni arrivano genuine grazie al lavoro di Malek e Boynton nell’interpretare i rispettivi ruoli. Ci sarà un motivo se nel suo testamento Mercury ha lasciato ad Austin il grosso del suo patrimonio. Non troviamo la stessa autenticità nelle scene sull’omosessualità, nelle feste e nelle orge che in questo film risultano più blande che trasgressive.
Nonostante parli della vita di una rockstar, Bohemian Rhapsody vuole diventare a tutti i costi un film adatto ai minori di 16 anni, e durante la trasformazione perde qualcosa di essenziale. Per fortuna c’è la musica, sempre presente per riempire i buchi della sceneggiatura scritta da Anthony McCarten (Darkest Hour, La teoria del tutto) cercando un virtuosismo che non viene mai a galla.
Poi c’è Malek, che è andato talmente a fondo nel suo personaggio da farci pensare di guardare il vero Mercury, con cui peraltro condivide l’esperienza da migrante (i genitori di Malek sono egiziani, quelli di Mercury di Zanzibar). Aiutato dal cantante Marc Martel, un “sosia vocale” di Mercury, Malek ha cantato comunque tutte le canzoni sul set, così da garantire una perfetta sincronia tra video e audio ed evitare un terribile effetto karaoke. Indossa anche denti finti, così da avere anche lui gli incisivi che Mercury diceva aiutassero a cantare meglio. Malek padroneggia anche la sensualità che la voce dei Queen portava sul palco, baffoni da pornostar compresi.
La scrittura della canzone Bohemian Rhapsody, uno strano mix tra rock e opera che esaltava Mercury nonostante i dubbi della critica, lascia spazio anche al cameo di Mike Myers, nei panni di un dirigente della EMI convinto che nessuno l’avrebbe mai passata in radio.
Il film ci fa ascoltare tutte le grandi hit dei Queen durante il suo climax, una scrupolosa riproduzione dell’apparizione al Live Aid del 1985, per molti la più grande performance della storia del rock. È difficile dargli torto. Non sappiamo quale diavolo di effetto speciale sia stato usato per ricostruire l’evento, ma la scena in cui Mercury duetta con il pubblico ci lascia qualcosa di essenziale a proposito rapporto tra la band e i suoi fan.
La vitalità travolgente di Malek merita tutti i complimenti che sta già ricevendo. Al diavolo i difetti di questo film – non perdetevi questa performance.
Peter Travers, Rollingstones.it, 30 ottobre 2018
Ancora prima dell'uscita «Bohemian Rhapsody» ha fatto il pieno medialico mondiale per alcuni incidenti di percorso, tra cui quello increscioso del licenziamento in corso d'opera del regista Bryan Singer (poi revocato nonostante il terzo del film girato nel frattempo da Dexter Fletcher) causato da una gragnuola d'accuse postume di molestie sessuali. Inoltre, certo, il biopic della rock star nonché icona lgbt Freddie Mercury accorpato alla glorificazione dei Queen, una delle band più famose della storia, meritava lo spasmodico impegno della 20th Century Fox decisa a farne - come sembra si stia già avverando - il kolossal musicale di maggiore successo nella storia del cinema. Purtroppo, però, sia il fan incrollabile, sia lo spettatore occasionale si troveranno secondo noi al cospetto di un prodotto ordinario sul piano stilistico, ridicolo e ipocrita su quello scandalistico e soprattutto assolutamente vuoto nonostante la monumentalità della ricostruzione e l'arditezza delle soluzioni tecniche adottate nelle acmi spettacolari (ovviamente fruibili al massimo laddove il film è proiettato nelle sale Imax). Le ragioni del fallimento sono molteplici però è indubbio che quelle maggiori risalgano al feroce controllo operato sulla realizzazione dai restanti membri del gruppo (Brian May, Roger Taylor e John Deacon), non solo coproduttori, ma anche proprietari dei diritti delle canzoni. Nell'ansia di garantire un prodotto per famiglie espurgato di qualsiasi risvolto torbido (...). Quando, sia pure trascinati dall'innegabile suggestione, è impossibile non interrogarsi sull'apparente assurdità dell'operazione e sulle ragioni per cui il cinema ha profuso milioni di dollari per riprodurre nel simulacro (come lo definirebbe il filosofo Baudrillard) dei pixel dell'alta definizione le facilmente reperibili e venerabili immagini passate alla storia.
Valerio Caprara, 'Il Mattino', 29 novembre 2018
Poteva essere una bohemian tragedy e invece la rapsodica, nel senso di episodica, vita di Freddie Mercury leader dei Queen è una hit spensierata che guardi, balli e poi ti dimentichi ma con piacevole soddisfazione. Rischiava di essere un flop annunciato perché i realizzatori sono stati incerti nel tono fino all'ultimo, senza una star dopo l'abbandono di Sacha Baron Cohen e con un regista prestigioso come Bryan Singer licenziato dopo tre mesi di riprese (gli è subentrato Dexter Fletcher). Il miracolo. E invece God save the Queen laddove il miracolo l'ha compiuto il divino Rami Malek, attore di origini egiziane stimato per la serie tv 'Mr. Robot' ma senza un grande ruolo cinematografico in curriculum, qui prodigioso a partire dalla spiritosa incoscienza con cui ha vestito i panni di un'icona del '900. Il suo Freddie Mercury ha gli occhioni sgranati di un bambino sempre sull'orlo delle lacrime, onnipotente solo quando si dimena su un palcoscenico con la fedele mezz'asta del microfono con cui fare acrobazie. Il film tutto sommato è la dolce vita di una diva leggermente riottosa, più Biancaneve che Evil Queen, (...). È tutto controllato e prodotto dal management del gruppo con l'obiettivo di non irritare nessuno, pieno zeppo di errori storici e omissioni, dando a Mercury il ruolo del ribelle con una causa: l'ego. La ricostruzione. Molto bella la ricostruzione della creazione in studio del capolavoro 'Bohemian Rhapsody' contenuta in 'A Night At The Opera' (1975) con Mercury a gestire dal mixer le individualità del gruppo prendendo in giro il machismo del batterista Roger Taylor (gli chiederà il famoso intermezzo operistico 'Galileo' con voce acuta da castrato) e la ritrosia dell'astrofisico represso Brian May a lanciarsi in 'schitarrate' realmente rockettare. Ci piace il solido buon umore dell'intera operazione e la sobrietà di una produzione oculata al punto da non sforare i 60 milioni di dollari di budget nonostante il look da kolossal. Grazie al basso budget al momento è il biografico musicale più redditizio della storia. Molto del merito va a Rami Malek. Da ora la sua carriera esploderà con una probabile candidatura all'Oscar. Lo davamo per spacciato. È stato incoronato Re. O meglio Queen.
Francesco Alò, 'Il Messaggero', 29 novembre 2018