Critica
Immenso Tre manifesti a Ebbing, Missouri, film in concorso alla 74ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia e terzo titolo da aggiungere alla filmografia del regista e sceneggiatore inglese Martin McDonagh. Una black comedy geniale, grandiosa nella sua cinica seppur coinvolta visione della morte, della giustizia; un’opera dalla perfetta scrittura narrativa, che si spinge oltre la dimensione del dramma e delle risate per giungere su un terreno comune dove gioire per la bellezza del suo racconto e le sue sconfinate intuizioni cinematografiche.
Forte e sicura delle proprie azioni, l’implacabile madre Mildred Hayes (Frances McDormand) è decisa a non far dimenticare l’orribile destino capitato alla sua giovane figlia Angela, uccisa e stuprata da un criminale ancora a piede libero che la polizia non è riuscita a rintracciare. Determinata nel mantenere accese le coscienze della città per fare in modo che il caso non rimanga irrisolto nel tempo, la donna ha scritto, sui tre manifesti sotto cui si è consumata l’atrocità, delle semplici e chiare parole. Constatazioni, domande che smuoveranno le sorti dell’indagine nonché il proseguire dell’esistenza dello sceriffo Willbourghby (Woody Harrelson) e del poliziotto Jason Dixon (Sam Rockwell).
Dei manifesti non restituiranno mai una figlia alla propria madre. Non le ridaranno indietro la possibilità di cambiare le cose, di accompagnarla per quella strada così familiare, ma trasformata per un tremendo destino in un teatro di sofferenza e dolore. Una parola però è capace di ferire, una domanda può rimettere in moto dei meccanismi che rischiavano presto di arrugginirsi. “Come mai, sceriffo Willbourghby?”. Come mai una ragazza è stata usata e gettata? Come mai il malvivente è riuscito a scappare? Risposte mute che lasciano spazio alle lacrime, ma che si pongono come punto di partenza per un’opera filmica dalla grandezza smisurata.
Tre manifesti a Ebbing, Mossouri è un film feroce, dotato di una sceneggiatura dalla potenza incontenibile, un insieme meravigliosamente attanagliante di assurda ironia che va a innalzare un racconto scaturito da una tragedia dilaniante, ma quasi usata soltanto come espediente per portare in vita personaggi dalla carica attrattiva enorme e traboccante. Nessuna sbavatura creativa, nessuna necessità di aggiungere o togliere, lo script del film scritto e diretto da Martin McDonagh è una perfetta base di sostegno su cui costruire un’opera entusiasmante, una commistione di atmosfere, suggestioni e trovate da rendere il film uno spezzone brillante di squisito cinema.
Tre manifesti a Ebbing, MissouriFrances McDormand è impeccabile nel personaggio di Mildred Hayes, l’attrice mostra un’abilità emozionante nel calarsi nel ruolo della dura madre tanto da diventare quest’ultima completamente parte di lei, delle sue espressioni, dei suoi gesti, portandola sullo schermo attraverso una recitazione mai eccessiva, sempre controllata. L’eccelsa interpretazione di una donna dall’anima sanguinante, ma dalle fredde convinzioni le quali la fanno rimanere incredibilmente lucida. Ed è la protagonista McDormand a capeggiare su una flotta di impressionanti attori, ognuno magistrale nella propria notevole parte, determinata e sostenuta da una caratterizzazione minuziosa, ma in primo luogo ottima, con un Woody Harrelson in forma smagliante sotto il cappello di un saggio e malato sceriffo e un Sam Rockwell alla sua (forse) migliore interpretazione.
Un film in grado di usare tanto di quell’intelligente humor da riuscire a far ridere anche mentre in sottofondo si scorge il corpo di una ragazza oramai esanime, che si biforca per una prima parte più cattiva e arrabbiata per poi aprirsi a una seconda incentrata sul cambiamento dei suoi personaggi, sfruttando per tutta la sua durata un susseguirsi di svolte e trionfando nel riuscire a non farne risultare nemmeno una banale. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è uno straordinario esempio di sceneggiatura e un film assolutamente eccezionale che trasporta dentro una storia di amarezza, punizione e bisogno di agire, sulle note western della colonna sonora composta da Carter Burwell. Un manifesto imponente di esemplare cinema.
Martina Barone. Cinematographe.it, 4 settembre 2017
Dopo In Bruges (2008) e 7 psicopatici (2012), l’opera terza ne conferma ed estende il talento: Martin McDonagh è oggi uno dei migliori registi-sceneggiatori al mondo. Sa filmare, sa dirigere gli attori e scrive, per farla corta, da Dio: Three Billboards Outside Ebbing, Missouri è il migliore film dei Coen da decenni a questa parte, senza essere un film dei Coen, e il migliore film di McDonagh per maturità, intensità e piacevolezza.
Fronte dei Coen, oltre al mood, c’è la protagonista Frances McDormand: la sua Mildred mesi dopo il brutale omicidio, con annesso stupro e rogo del cadavere, della figlia non ha ancora un colpevole e per ridestare l’attenzione affitta tre vecchi cartelloni pubblicitari fuori Ebbing, Missouri, chiamando in causa il capo della polizia locale William Willoughby (Woody Harrelson), malato di cancro al pancreas. Tra i suoi uomini, spicca per violenza, razzismo e balordaggine l’agente Dixon (Sam Rockwell), che proprio non tollera l’iniziativa di Mildred…
Nel cast anche Abbie Cornish, Lucas Hedges, Željko Ivanek, Caleb Landry Jones, Clarke Peters, Samara Weaving, nonché John Hawkes e Peter Dinklage, Three Billboards è una dark comedy sanguinolenta e arrabbiata, larger than life ma sottile, sapida e urticante, non bigotta e non scontata. La correttezza politica è il primo dei cadaveri, ma a cadere sono anche stereotipi e titubanze del genere di riferimento: nonostante la stilizzazione, qui si fa sul serio, e basterà la lettera di Willoughbly per farvi venire la pelle d’oca.
Genere d’autore, verrebbe da dire, in cui McDonagh ritrova e perfeziona se stesso: il controllo è totale, ma le battute così ficcanti ed esplosive da parere improvvisate. E che dire di Frances, Woody, Sam e gli altri attori? Sublimi, da farci una cura Ludovico Van per tanti loro “colleghi”.
Da lustri la dark-comedy dell’America profonda non brillava così fragorosa nell’oscurità: sui quei tre cartelloni la pubblicità è progresso.
Federico Pontiggia, Cinematografo.it, 9 gennaio 2018
Al suo terzo film, Martin McDonagh conferma una visibile impronta: infiltrare la tragedia dentro la commedia nera. Tre manifesti a Ebbing, Missouri sposa la pratica prediletta ma sposta più avanti la riflessione.
La speculazione sale e progredisce, affondata nel Missouri, situato al centro degli States e rivelatore della crisi che scuote il Paese. Nello stato che non ha mai completato il percorso dallo schiavismo e genocidio delle origini al garantismo costituzionale e all'ideale pluralista multiculturale, l'autore svolge la storia di una madre che vuole giustizia. La pretende da poliziotti distratti, affaccendati a escludere gli omosessuali dalla protezione del "Civil Rights Act", approvato nel 1965, o a "torturare persone di colore", la sceneggiatura di McDonagh sottolinea lo slittamento semantico per bocca dell'agente di Sam Rockwell.
Richiamati al loro dovere dai manifesti del titolo e dall'inconsolabile dolore di una madre, i cops adottano misure repressive, criminalizzando chi vuole soltanto giustizia. Ma è a questo punto della vicenda che il drammaturgo irlandese, cresciuto a Londra ma all'ombra di Samuel Beckett, scarta e rilancia realizzando il desiderio di Marty (7 psicopatici), lo sceneggiatore alcolizzato di Colin Farrell che provava a fuggire l'apologia della brutalità, la mitologia del crimine caustico, la verbosità prolissa e i motherfucker interposti. Lo scarto è incarnato dallo sceriffo di Woody Harrelson, magnificamente contre-emploi. Attore nato per uccidere, che misura sovente la propria performance in situazioni estreme, Harrelson è il cuore morbido di questa 'commedia profonda' che cerca e trova l'anima dell'America sotto l'intolleranza acuta e la mentalità settaria. È il suo gesto, 'inoltrato' con tre lettere, a impegnare gli altri personaggi.
A mettere in gioco il loro destino e in discussione il loro ruolo nell'ordine delle cose. Mildred (Frances McDormand) e Dixon (Sam Rockwell), fanatici e integralisti, ciascuno a suo modo, volgono l'intolleranza in rispetto mutuale, avanzando verso l'Idaho e un finale che "strada facendo" prova almeno a ragionare sulla vocazione violenta e autoritaria della società americana. Senza seccare mai il regime letale del linguaggio e la vena comica del suo cinema, che sottolinea la desolazione in cui versano i personaggi potenziando gli aspetti simbolici del dramma, Martin McDonagh prosegue la sua critica sistematica alla rappresentazione della violenza.
Se in 7 psicopatici si sviluppava intorno ai film di Oliver Stone e Quentin Tarantino, in Tre manifesti a Ebbing, Missouri registra i limiti dello 'spettacolo' impietoso ma divertente tentando un 'esercizio spirituale' o almeno di pratico buon senso in luogo del delitto. Vittime (infine) consapevoli di una dissociazione tra il sociale e l'individuale, tra il fuori e il dentro, tra i processi storico-politici e quelli della coscienza umana, Mildred e Dixon tentano di colmare la separazione col viaggio che non insegue isole felici ma un nuovo equilibrio morale. La storia americana negata al progresso e alla speranza trova respiro e via di fuga nel cinema di McDonagh, che demistifica con amarissima allegria la tragedia dell'esistenza. Evocando un mondo (possibile) alla fine del mondo.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 4 settembre 2017