Critica
Verso la fine dei titoli di coda si leggono queste parole: "Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero". In questa breve frase è sintetizzata la modalità di lavoro di Ken Loach (e del suo sceneggiatore doc Paul Laverty): costruire una storia solida sul piano cinematografico senza mai dimenticare la realtà.
Quella ritratta da Ken Loach è una realtà formata da persone che nel non voler comparire denunciano implicitamente la condizione di precarietà in cui operano. Ci sarà probabilmente chi affermerà che siamo di fronte all'ennesimo comizio di un regista che non ha mai nascosto da quale parte batte il suo cuore. Bene, se questo è un comizio lo erano anche, sul piano letterario, "I miserabili" di Victor Hugo o l'"Oliver Twist" di Charles Dickens (solo per fare un esempio).
Loach non scrive romanzi, dirige film ma lo fa con la stessa passione e anche, perché no, con la stessa forma di indignazione. Non si tratta mai con lui di pauperismo, di commiserazione e tantomeno di populismo. A un certo punto del film c'è una reazione verbale da parte di uno dei protagonisti che, se non fosse che al cinema ci si comporta diversamente che a teatro, spingerebbe all'applauso. In quel momento ti accorgi di come Loach abbia saputo leggere non solo nella psicologia dei personaggi (che nel suo cinema sono sempre 'persone') ma pure in quella dello spettatore.
Anche sul piano più strettamente cinematografico il suo si presenta come un lavoro tanto partecipe quanto accurato. L'apparente semplicità del suo modo di riprendere richiede un gran lavoro con gli interpreti e fa costantemente leva sulle sue doti di documentarista capace di trasferire la realtà nel cinema di finzione. Si osservino i dialoghi a tavola in famiglia e ci si accorgerà di come vengano portati sullo schermo con la naturalezza di una candid camera. Perché Loach ad ogni film ci chiede non solo di guardare quanto accade seduti sulla nostra comoda poltrona ma di condividere i disagi e le problematiche che ci propone. Ci chiede di confrontarci con quella 'normalità' feroce che oggi, come ai tempi della rivoluzione industriale ma con più sofisticata e globalizzata malizia, il dio mercato impone.
Abby, Ricky, Seb e Liza Jane non sono supereroi, non hanno nulla di straordinario nelle loro vite. Sono semplicemente una famiglia, con le proprie difficoltà e con una unità che si vorrebbe far vacillare. Al di là dei proclami retrogradi o interessati di cui la parola 'famiglia' viene sempre più spesso fatta oggetto Ken Loach ci ricorda che elemento imprescindibile della sua coesione è, oggi più che mai, la dignità del lavoro che troppo spesso viene sistematicamente conculcata. La schiavitù non è stata abolita. Ha solo cambiato nome. Ken e con lui (in tutt'altro ruolo) Francesco non smettono di ricordarcelo.
Giancarlo Zappoli, Mymovies.it, 17 maggio 2019
Ancora Newcastle, dopo I, Daniel Blake, Palma d’Oro nel 2016, e ancora il caro vecchio Ken Loach, stavolta alle prese con le nefandezze della gig economy, in particolare delle consegne da un giorno per il successivo. In Concorso a Cannes 72, dove ambisce alla terza Palma (nel 2006 per Il vento che accarezza l’erba la prima), Sorry We Missed You inquadra una famiglia che sta per saltare in aria, complice appunto l’economia dei lavoretti (gig economy), dove ognuno è padrone di se stesso e schiavo di tutti gli altri. Tale è il capofamiglia Ricky (Kris Hitchen), che perso il lavoro nelle costruzioni si reinventa corriere freelance alle dipendenze, solo in termini vessatori, di tale autoproclamato re degli stronzi Maloney (Ross Brewster). All’uopo, deve farsi un furgone, e l’unica possibilità per ottenerlo è vendere l’auto della moglie Abby (Debbie Honeywood), che assiste a domicilio anziani e infermi con un contratto, capestro, a zero ore. Assorbiti e prostrati, soprattutto Ricky, i due hanno poco tempo per occuparsi dei figli, Seb (Rhys Stone) che si divide tra graffiti, poca scuola, qualche furto e il rifiuto dell’autorità e Liza Jane (Katie Proctor), saggia e sensibile.
Non può non tornare in mente L’altra verità (2010), sui contractor in Iraq, non per il tema, ma per la rabbia che è il vero fil rouge di Sorry We Missed You – titolo beffardo, viene dal flyer per la mancata consegna, pas de sentiments – e rischia persino di travolgerlo. Così totalizzante l’avversione di Loach per la gig economy, e derivati, che il film sembra assemblare una serie di sfortunati eventi ai danni, sopra tutto, di Ricky, affinché la stigmatizzazione possa elevarsi a potenza: si rischia, così, non solo il paradigmatico, ma anche il programmatico, con qualche spiegone, esemplarità, “colpirne uno per educarne cento” di troppo.
Per carità, Loach ancora in team con il fedele Paul Laverty alla scrittura pensa onesto e gira sincero, con una passione civile e una vis politica senza eguali, ma al netto dell’empatia di Abby, della purezza contagiosa di Kiza – Katie Proctor è un miracolo – si sente la grana del saggio, l’architettura a tesi, e tesi giusta: manca, se non a tratti, l’emozione gratuita e non funzionale allo stigma, ancor più, manca il sol dell’avvenire, ovvero il riscatto equo e solidale. Che la gig economy abbia annichilito anche i working class hero? Sta di fatto, la rabbia di Loach è condivisibile, il film perfettibile o, meglio, liberabile.
Federico Pontiggia, Cinematografo.it, 17 maggio 2019