GIOVEDì 2 luglio ore 21.30 |
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Regia
Fabio D'Innocenzo , Damiano D'Innocenzo
Genere
DRAMMATICO
Durata
98'
Anno
2020
Produzione
AGOSTINO E GIUSEPPE SACCA' PER PEPITO PRODUZIONI CON RAI CINEMA, AMKA FILM, QMI, VISION DISTRIBUTION
Cast
Elio Germano (Bruno Placido), Barbara Chichiarelli (Dalila Placido), Gabril Montesi (Amelio Guerrini), Max Malatesta (Pietro Rosa), Lino Musella (Professor Bernardini), Laura Borgioli (Ada Tartaglia), Giulia Melillo (Viola Rosa), Justin Korovkin (Geremia Guerrini,) Giulietta Rebeggiani (Alessia Placido), Tommaso Di Cola (Dennis Placido), Ileana D'Ambra, Max Tortora - (voce narrante) |
Una calda estate in un quartiere periferico di Roma. Nelle villette a schiera vivono alcune famiglie in cui il senso di disagio costituisce la cifra esistenziale comune anche quando si tenta di mascherarlo. I genitori sono frustrati dall'idea di vivere lì e non altrove, di avere (o non avere) un lavoro insoddisfacente, di non avere in definitiva raggiunto lo status sociale che pensavano di meritare. I figli vivono in questo clima e ne assorbono la negatività cercando di difendersene come possono e magari anche di reagire.
I fratelli D'Innocenzo, dopo aver offerto al pubblico un film d'esordio (La terra dell'abbastanza) che ha meritato ampiamente tutti i riconoscimenti ricevuti, propongono ora un'opera in cui bisogna immergersi senza essersi dotati di coordinate di sinossi precise, accettando, con una sorta di patto iniziale, non solo di sentirsi raccontare una storia di sofferenza ma di avvertire che la sofferenza stessa tracima dallo schermo.
Soggetto: Fabio D'Innocenzo, Damiano D'InnocenzoTrama
Critica
Gli autori la definiscono, in contrasto con il realismo della loro opera prima, come una favola nera in cui hanno riversato, attraverso la voce di un narratore, il vuoto pneumatico di figure parentali (con in più un docente) che dovrebbero insegnare a vivere ai propri figli mentre invece hanno perduto qualsiasi capacità di positività e di sguardo sul futuro.
La loro vita è fatta di passività (le mogli) o di aggressività verbale (la neo madre) mentre i maschi (chiamarli 'uomini' sarebbe attribuire loro una maturità intellettuale e caratteriale che, ognuno a suo modo, non possiedono) si nutrono di rabbie a stento represse e di velleità machiste. Ma, come insegnava Vittorio De Sica nel 1943 I bambini ci guardano. Come il piccolo Pricò, questi ragazzini sono costretti ad assistere al disfarsi e corrompersi di qualsiasi punto di riferimento. Anche se hanno tutti 10 nella pagella scolastica (magari con un 9 in condotta) quella che potrebbero assegnare ai genitori dovrebbe riempirsi solo di "inclassificabile" che è una valutazione ancora peggiore dello 0. Costretti da ciò che li circonda a comportarsi 'da grandi' (come se quello che i loro modelli familiari propongono significasse esserlo) cercano di individuare una via d'uscita. La troveranno con soluzioni diverse.
I D'Innocenzo ci propongono solo tinte scure e a uno sguardo superficiale si potrebbe pensare che di pessimismo oggi ne circola già abbastanza senza bisogno di ulteriore impegno. Di fatto però non è così. Perché questa più che una favola nera è (ci si perdoni il gioco di parole) una favola 'vera'. Basta leggere le cronache quotidiane per rendersene conto.
E se nelle favole nere non ci sono principi azzurri qui invece ce ne sono ben due. Sono i D'Innocenzo che, concentrando in una sorta di overdose narrativa il negativo sempre più presente nella società contemporanea, anche se con una diffusione a macchia di leopardo, ci vogliono ammonire. Ci ricordano che sempre più spesso i draghi dell'insensibilità e dell'amoralità (travestita da perbenismo di facciata) si annidano in quelle grotte che sono diventate certe abitazioni in cui solo apparentemente c'è tutto ciò che occorre. Questo film è la lancia che utilizzano per aiutarci a prenderne coscienza e ad iniziare a stanarli per poi sconfiggerli.
Giancarlo Zappoli, Mymovies.it, 25 febbraio 2020
La terra non è più dell’abbastanza, non è più media, ma mediana, interseca l’abbondanza e la mancanza. E’ una terra di villini familiari e sconosciuti insieme, in cui la crisi è quotidiana, ovvero non è crisi. All’opera seconda, i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo non se la raccontano più, come nel pur pregevole esordio La terra dell’abbastanza (2018), ma ci sbattono in faccia le loro, ovvero le nostre, Favolacce, un po’ favole e un po’ parolacce, un po’ Rodari e un po’ King, in cui il turpiloquio è il (mal)vivere oggi.
Siamo nella periferia sud di Roma come ovunque, le famiglie sono contigue ma crescendo non c’è prossimità, si perde la vicinanza solidale, sperimentale ed euristica che fu, ed è ancora, tra i banchi di scuola: gli adulti sono autoritari, mai autorevoli, i bambini soccombono ma non s’arrendono, la rabbia alimenta il cortocircuito, rimpolpa la disperazione, chiama la fine.
L’inferno è qui e ora, ma non divampa, implode, un grado dopo l’altro cuoci senza accorgertene, impercettibile e inesorabile, di più ineluttabile: sadici i padri, prostrate le madri, terrorizzati e terroristi i figli, rien ne va plus.
In Concorso alla 70esima Berlinale, i fratelli D’Innocenzo, che scrivono e dirigono, aprono in medias res nella terra di tutti e nessuno, e prendono il polso alla malattia del sopravvivere contemporaneo: la bisettrice non è solo tra abbondanza e mancanza, ma falcia la sperequazione scolastica, sociale, sì, politica. A scuola non c’è educazione ma istruzione, non ci sono piccoli umanisti ma piccoli chimici, a casa non c’è cultura, e sottocultura proletaria, ma censo piccoloborghese, c’è tutto e c’è niente, c’è il litorale cementificato e la palude bonificata.
C’è la speranza, sì o no? C’è la poesia spoetata di Pasolini, e la necessità di morire, c’è la parafrasi di Fofi, c’è prima e dopo uno sguardo irriducibile, che spia, stigmatizza, violenta perfino, ma non giudica.
Del resto, non servirebbe: la realtà inquadrata a mezz’altezza, di sghembo, scorciata, sfocata, lisa e perfino rubata (grande lavoro del dop Paolo Carnera) è autoassolvente, autoriproducente, non si può sconfiggerla, perché è già vinta. I D’Innocenzo prendono, consapevolmente o meno, volontariamente o no, dal primo Lanthimos, da Seidl, da Haneke, da Garrone, sopra tutto da Todd Solondz e dalle comunità lasche, le identità piagate, la psicosi diffuse e il genocidio intellettuale distillano il veleno, sintetizzano la molecola del disagio, del no future.
E lo fanno dando pieno potere all’immagine – ottime scenografie di Paola Peraro, Emita Frigato e Paolo Bonfini, bella sintassi nel montaggio di Esmeralda Calabria – facendone il precipitato dell’immaginario, e non più comunemente viceversa: entriamo, perlustriamo, conosciamo quella comunità come se fosse un Ufo, solo che è “normale”.
Ancora, c’è speranza?
Non nella famiglia del padre padrone Bruno Placido (Elio Germano, super), che rovina la vita a sé per massacrarla agli altri, fino all’auto-sabotaggio; non nell’insegnamento del professor Bernardini (Lino Musella), che dispensa formule e progetti distruttivi; non altrove, dove si cerca di contrarre il morbillo senza intendere il contagio esistenziale, dove si dà alla luce senza via di scampo.
Eppure, nel male pervasivo la speranza c’è. Non una, ma doppia.
C’è la speranza artistica, quella del primato del racconto sulla storia, della possibilità di ripartire, di continuare, o forse no, il diario interrotto, di riannodare le vite spezzate, se non delle persone, dei personaggi. E’ la speranza autoriale, quella poetica del cantastorie e quella meccanica del dispositivo, è la speranza narrativa, quella antica dell’aedo e della comunità attorno al fuoco. E' la libertà di inventare che esorcizza la circolarità di un destino infame.
Ma ce n’è anche un’altra di speranza, anche questa antica, e forse perduta, pasoliniana, e forse ancora possibile. Sta nell’affetto di un padre che non ha nulla e ha tutto per un figlio che non ha nulla ma ha un padre, sta nella non disparità, nella non divaricazione di materiale e culturale, ovvero nella non prevalenza del censo, e financo status, piccoloborghese. Amelio Guerrini (Gabriel Montesi, giusto), che fa il cameriere, si masturba en plein air e non gli manca niente perché ha niente, e Geremia Guerrini (Justin Korovkin), il figlio con i vestiti del padre, la cinta passata due volte e il cervello fino. Non c'è differenza tra ciò che si ha e ciò che si è (si sa) in Amelio e Geremia.
Nel loro amore, che non è solo vita ma sopravvivenza, storia e racconto coincidono, favola salvifica e parolaccia prosaica si corroborano: amor vincit omnia. O, per dirla con Pasolini, “ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone”.
Su questa scia, ma non solo, i fratelli D'Innocenzo sono una delle cose più belle capitate al cinema italiano in anni recenti.
Federico Pontiggia, Cinematografo.it, 25 Febbraio 2020Altre informazioni
Sceneggiatura: Fabio D'Innocenzo, Damiano D'Innocenzo
Fotografia: Paolo Carnera
Montaggio: Esmeralda Calabria
Scenografia: Emita Frigato, Paola Peraro, Paolo Bonfini
Costumi: Massimo Cantini Parrini
Suono: Fabio Pagotto - (montaggio, presa diretta), Marc Thill - (presa diretta)
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