Critica
(...) Fondamenta sociali, ma all'autore interessano probabilità e imprevisti di essere padri e figli, analizzando le carriere d'un gruppo spinto fuori dalle regole vigenti ma capace di annodare un nodo scorsoio di affetti. Bellissimo da vedere, il film sedimenta dentro e ogni immagine conserva un'offesa: Kore-eda scala le vette poetiche di Ozu ma non arriva in cima, ci va vicino con altri arpioni.
Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 13 settembre 2018
(...) una famiglia sui generis (anche biologicamente), ma per certi versi, autentica, ideale, quella che poco a poco ci viene svelata da Hirokazu Kore-eda nel suo ultimo film. (...) Rispetto agli altri suoi film, però, in cui i conflitti sono quasi increspature, qui assistiamo al progredire una storia con colpi di scena, pur tra le maglie di uno stile sempre quieto: inquadrature fisse, musiche sobrie e melanconiche, prevalenza di campi medi e lunghi; finché nella parte finale si passa a dei primi piani frontali, rivelatori, in una soluzione tutta in levare, magistralmente costruita per ellissi di regia e di sceneggiatura. (...) A suo modo 'Un affare di famiglia' è, nel senso migliore, 'un film di buoni sentimenti'. Solo che questi sentimenti sono opposti ai legami sociali e biologici ufficiali. Una specie di utopia, piena però di zone d'ombra e contraddizioni al proprio interno, anch'esse narrate e accettate pienamente dallo sguardo del regista. Non c'è insomma nemmeno un conflitto schematico, tra il calore di dentro e il gelo di fuori (anche se fiori cade la neve). Comunque, il ritratto della società giapponese, indiretto, è durissimo. E l'immagine che rimane è l'ambientazione, una specie di villetta da fiaba, incastrata tra i condomini, rimasta fuori dal tempo e dalla disumanità. Un'immagine che riporta in mente il titolo di un saggio sulla famiglia di qualche decennio fa: un rifugio in un mondo senza cuore.
Emiliano Morreale, 'la Repubblica', 13 settembre 2018
Quando l'obiettivo della macchina da presa, piazzata a venti centimetri da terra, riprende la scena in perfetta linea orizzontale e inquadra soltanto il pavimento e le gambe dei protagonisti, allora capisci che lo spirito giapponese di Ozu Yasujiró è dentro Kore'eda Hirokazu, erede non solo suo ma anche del Kurosawa Akira di 'Dodes'ka-den' e della sua intera poetica. Realismo e non-assolutismo insieme. Raccolti in un film-gioiello che all'ultimo Festival di Cannes ha vinto la Palma d'oro meritandosela tutta.
Claudio Trionfera, 'Panorama', 8 marzo 2018
Taccheggi formato famiglia: il regista e sceneggiatore nipponico Kore-eda Hirokazu è partito dalla constatazione che “solo i crimini ci tengono insieme”. E ha messo davanti alla macchina da presa del suo nuovo film, Shoplifters, in concorso a Cannes 71 le frodi sulle pensioni e i genitori che obbligano i figli al taccheggio: “reati particolarmente osteggiati in Giappone, ma mi domando perché la gente sia così arrabbiata di fronte a queste infrazioni minori laddove c’è chi viola la legge più gravemente senza alcuna condanna”.
Ecco dunque Osamu (Franky Lily, era il padre disagiato di Like Father, like Son) e il figlio Shota (Kairi Jyo) far ritorno a casa dopo un furtarello al supermercato e imbattersi nella piccola, maltrattata e abbandonata Juri (Miyu Sasaki), prenderla con sé e presentarla agli altri membri della famiglia: sua moglie Nobuyo (Ando Sakura), la cognata Aki (Matsuoka Mayu), la madre Hatsue (Kiki Kirin). Pur povera, mal accomodata in una casetta di legno e un tot disfunzionale, la famiglia sembra felice, affiatata, affettuosa, ma sarà proprio così?
Non diceva forse Lev Tolstoj che “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”? Senza svelare inutilmente, e nocivamente, dettagli della trama, Shoplifters riconsegna il Kore-eda specializzato nelle geometrie variabili della famiglia, dalla sorellanza alla paternità (biologica e culturale), dai rapporti di coppia alla camera altezza bambino: quello che conosciamo e apprezziamo da tempo, insomma, capace di capolavori (Like Father, Like Son, 2013) o meno (Umimachy Diary, 2015).
Qui siamo sul secondo versante, ché se ci sono sequenze e interpretazioni – il bambino è bravissimo, e pure il padre – che toccano dentro e mettono allo specchio, nondimeno, il meccanismo narrativo è perfettibile: più di qualche inverosimiglianza, non elusa da un certo afflato fiabesco; più di qualche ellissi colpevole; più di qualche semplificazione nello scioglimento.
Insomma, non latitano simpatia per gli ultimi, discernimento valoriale – talvolta, si sa, il fine giustifica i mezzi, anche perché “le merci al supermercato non sono di nessuno”, predica il padre – e sensibilità di tratto, ma mancano risolutezza poetica e compattezza drammaturgica: chi li ha rubate?
Federico Pontiggia, Cinematografo.it, 11 settembre 2018