MARTEDì 15 e MERCOLEDì 16 maggio ore 15.30 - 18 - 20.30 GIOVEDì 17 maggio ore 15 - 17.30 - 20 - 22.15 |
Regia
Guillermo del Toro
Genere
DRAMMATICO, THRILLER
Durata
123'
Anno
2017
Produzione
GUILLERMO DEL TORO, J. MILES DALE PER DOUBLE DARE YOU
Cast
Sally Hawkins (Elisa Esposito), Michael Shannon (Richard Strickland), Richard Jenkins (Giles), Octavia Spencer (Zelda Fuller), Michael Stuhlbarg (Dott. Robert Hoffstetler), Doug Jones (Creatura anfibia), David Hewlett (Fleming), Nick Searcy (Generale Hoyt), John Kapelos (Mr. Arzounian), Stewart Arnott (Bernard), Nigel Bennett (Mihalkov), Lauren Lee Smith (Elaine), Martin Roach (Brewster Fuller), Allegra Fulton (Yolanda), John Kapelos (Sig. Arzoumanian), Madison Ferguson |
America, anni Sessanta, sullo sfondo della Guerra Fredda. Elisa lavora in un segretissimo laboratorio governativo di massima sicurezza. Intrappolata in una vita fatta di silenzio e isolamento, la donna vede la sua esistenza cambiare per sempre quando insieme alla sua collega Zelda scoprono uno strano esperimento non classificato.
Guillermo del Toro conferma il suo stile onirico, in una storia dove il sole non sorge quasi mai. L’oscurità regna sovrana in ogni sequenza e rispecchia il dolore intimo dei personaggi, che soffrono per una vita perduta. La creatura è stata strappata da un fiume in Amazzonia per diventare una cavia da laboratorio, mentre Elisa, l’eroina della storia, è muta per un trauma passato e vive ai margini della società, perché si sente diversa. Lei lavora come donna delle pulizie in un laboratorio segreto, dove gli esperimenti sono all’ordine del giorno. Per comprendere la natura onnivora di Guillermo Del Toro, capace di rielaborare con una sua inconfondibile e coerente poetica i materiali più differenti, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura al fumetto, dal cinema d’autore (Bunuel su tutti) a quello di genere e b-movie, bisogna andare nel suo gabinetto delle curiosità a Los Angeles, la Bleak House. Al suo interno possiamo scorgere una scultura di H.P Lovecraft, un’alcova a mo’ di altarino dedicata a Dickens, un’armatura samurai, oppure veder sbucare il freak Schlitzie o Karloff in versione Frankenstein. Non mancano libri, enciclopedie di anatomia, i comics dell’infanzia. Un mondo sospeso, un tempio gotico, pieno di stranezze e omaggi, che ben mette a fuoco il cuore pulsante di un regista nutritosi dei più vari elementi, senza gerarchie, senza dualismi, senza preconcetti.
Soggetto: Woody Allen, Marshall BrickmanTrama
Critica
Siamo nel 1962, quando i potenti si sfidavano a colpi di scoperte tecnologiche e cominciavano ad alzare lo sguardo verso le stelle. I russi e gli americani si contendevano il mondo e la paura del nucleare evitava la guerra. I servizi segreti made in Usa si scontrano col KGB, e tutti pensano a quale animale potranno mandare per primo nello spazio. Elisa scopre la passione per quell’essere che il Governo vorrebbe usare come una cavia da laboratorio, e il suo mondo si colora all’improvviso.
L’anima nostalgica di The Shape of Water prende vita con le Cadillac che sfrecciano per le strade, con il mito del sogno americano che muore sotto i colpi dell’incomprensione. Del Toro attacca la politica intransigente di Trump verso gli immigrati e presenta la caricatura del self made man con il villain Michael Shannon. Lui ha una famiglia perfetta e una moglie bellissima, ma l’ambizione lo divora. Il progresso e la smodata ricerca della conoscenza distruggono la bellezza della quotidianità.
Del Toro si rivela ancora una volta un grande narratore, dopo il convincente e sempre sanguinoso Crimson Peak. Anche qui non mancano le inclinazioni gore che contraddistinguono la sua regia, e le scene “spinte” attirano gli adulti e lasciano a casa i bambini. Non si tratta di un ritorno all’horror, ma di un richiamo a Il labirinto del fauno, a quella dimensione fanciullesca che aveva rapito pubblico e critica.
Al regista messicano non interessa la verosimiglianza, e lo stesso cantastorie di The Shape of Water, un eccentrico Richard Jenkins, lo conferma durante i primi minuti. “Come potrei raccontarvi questa storia? Come potreste credermi?”, recita l’attore dopo i titoli di testa. La finzione è la vera realtà, e i mostri camminano tutti i giorni sui marciapiedi. Sembrano persone normali e l’anima avvelenata la nascondono sotto un bel vestito.
The Shape of Water va oltre le apparenze, scava nel profondo, ed esalta con la sua cinefilia. Non a caso Elisa vive sopra a una sala cinematografica, per ricordarci che dobbiamo ancora sognare e credere nell’impossibile.
Gian Luca Pisacane, Cinematografo.it, 14 febbraio 2018
È sufficiente osservare l'arte contemporanea per convincersi degli effetti suscitati dalle trasformazioni della vita acquatica sull'ecosistema e di conseguenza sulla vita degli uomini. Da Damien Hirst, che valorizza il corallo minacciato dal riscaldamento degli oceani, a Suzanne Husky e alle sue sirene, il fondo marino ossessiona numerosi artisti.
Se alcuni tra loro sondano quello che si gioca oggi nella profondità dei fondali, altri ci pescano una mitologia ancestrale e una nuova inquietudine. Architetto di incubi, Guillermo del Toro si iscrive nella seconda categoria, rinnovando le affinità, umide e furiose, che gli esseri umani intrattengono con il mondo marino. Sospeso tra nevrosi terrestri (la Guerra Fredda e l'irriducibile paura del diverso) e iridescenze acquatiche, The Shape of Water inventa sotto i nostri occhi un nuovo continente, tra mare e terra, scongiurando l'annegamento con la potenza dei fantasmi.
Proseguendo la sua relazione con lo straordinario, l'autore avanza nella Storia e produce un'articolazione sottile, ma senza gravezza metaforica, tra realtà e doppio fantasmagorico che spiega i suoi oscuri meccanismi. Precipitato in piena Guerra Fredda, il racconto agisce su due livelli, quello della cronaca realista (la violenza della Storia) e quello dell'immaginario mitologico (l'incontro con la straordinaria creatura), e osserva due movimenti, quelli su cui si equilibra tenacemente il cinema dell'autore.
In principio c'è l'aggressione, l'intrusione di un corpo esterno, e poi il gesto espiatorio marcato dall'estromissione della fantasia, dalla sua fuga o dalla sua distruzione nella speranza di rimettere il mondo com'era al debutto. L'azione si situa a Baltimora a metà degli anni Cinquanta dove si soddisfa la paranoia anticomunista del Paese. Al martirio impietoso del mostro si intreccia la rivelazione del suo splendore, alla crudeltà del mondo reale, incarnato dal fanatismo di Strickland, si allaccia la 'mostruosità' di un essere magico che lascia evadere lo spirito romantico della protagonista.
Non è la prima volta che il regista messicano accomoda il racconto onirico al cuore della Storia (Il labirinto del fauno è ambientato nella Spagna franchista), in cui fantasmi infantili e oggettività sinistra si accordano con poesia e pertinenza. Se ieri era un labirinto funebre, oggi è uno specchio d'acqua idillico da cui emerge e in cui immerge un nuovo immaginario, ibridando elementi umani e forme acquatiche.
Curando il delirio totalitario di Strickland con la grazia liberatrice dell'arte (la creatura di Doug Jones ripara al cinema), del Toro conferisce al suo film una portata estetica e morale esemplare. Per la bellezza che ne deriva, rinviando a una tradizione questa volta cinematografica che si interroga sulla relazione tra orrore e sua rappresentazione (Il mostro della laguna nera). Se gli incubi dell'epoca e i tornadi interiori sono affidati a Michael Shannon, volto roccioso che dissimula la mostruosa nefandezza dei suoi prossimi, Doug Jones incarna il doppio fantastico e compassionevole che 'accompagna' l'eroina sulle note di Glenn Miller.
Alla maniera del suo autore, Elisa si innamora perdutamente del mostro. Perché il fantastico per Guillermo del Toro non serve a esorcizzare le paure ma piuttosto a viverle. È l'ultima espressione di speranza e di terrore dell'uomo. Recuperando le radici creative della serie B e rigenerandole infaticabilmente, l'autore invita lo spettatore a riconsiderare i generi e il loro stile, lo persuade della loro inesauribilità, isolandone i meccanismi fondamentali e trovando la chiave per attivarne gli ingranaggi. Ieri la creatura di Jack Arnold nuotava silenziosa al di sotto dell'eroina, oggi ne abbraccia emersa il corpo. Quello elettrico di Sally Hawkins, determinata a provare che l'amore può essere contagioso e il silenzio una lezione sovversiva.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 31 agosto 2017
Il cinema di Del Toro in fin dei conti è proprio la Bleak House, una miscellanea fantasy allestita da un regista che non ha mai smesso di approcciare le immagini con gli occhi divertiti di un bambino.
Spesso liquidato con il pigro slancio critico che vede nella sua filmografia un accumulo grezzo e derivativo, sarebbe l’ora di approcciare questo autore che non si limita al semplice calco, ma cerca invece di utilizzare l’altrove (cinematografico) per riflettere sulla realtà, soprattutto storica.
Anche La forma dell’acqua si rivolge al passato seguendo l’amore del suo regista per il rétro e il démodé, questa volta collocando la fiaba nel clima teso e sospettoso della Guerra Fredda. Elisa, una muta Cenerentola, trascorre la routine giornaliera tra i labirinti di un centro di ricerca governativo. È una donna delle pulizie, l’ultimo anello di una società esplicitamente maschilista, razzista, omofoba, classista, piena di pregiudizi.
La protagonista altra, diversa e perlopiù incompresa è servita, ma ciò non è un problema, perché il mostro, da intendere soprattutto nella sua accezione di outsider, per Del Toro è sempre una prospettiva che deraglia la chiusura e le paranoie del mondo reale. Elisa è una bimba sognante, un po’ come l’Ofelia de Il labirinto del fauno, vive con il calore del suo vicino di casa omosessuale Giles, un ex pubblicista che, per la sua identità, è stato licenziato e, nonostante tutto, cerca con ostinazione di poter vendere nuovamente la sua arte e tornare a lavorare.
I due trascorrono il tempo libero guardando (vecchi) film, imitandone le movenze, cullati in una dimensione sospesa che solo il cinema può regalare, un cinema che fisicamente sta proprio sotto il loro appartamento, in una evidenza meta- che si autoafferma, come a dirci che nell’universo del Toro le radici partono proprio da lì: «Ho sempre disegnato tre mostri ossessivamente: Il Mostro della Laguna, il Mostro di Frankenstein e il Fantasma dell’Opera di Leon Chaney».
E se The Creature of the Black Lagoon uscisse dallo schermo e diventasse l’oggetto del “desiderio” tra americani e russi? E se questo emblema della diversità nascondesse dentro di sé l’animo di un principe, capace di aprire una breccia nella logica paranoica tra le due fazioni?
L’antenato di Abe Sapiens di Hellboy (si tratta forse di suo padre?), è la divinità immortale che più ossessiona il suo alterego Strickland, un sadico Michael Shannon che sembra reiterare al cinema la caratterizzazione spietata del celebre Nelson Van Alden di Boardwalk Empire.
Nel mondo di Guillermo Del Toro lo scorrere del tempo, nella sua ineluttabilità, è una costante.
Da Cronos, dove un insetto nascosto in un talismano poteva garantire la vita eterna, all’orologio del capitano Vidal ne Il labirinto del fauno, al doloroso ricordo paterno di Jacinto ne La spina del diavolo, alla castello/prigione del passato dei due fratelli in Crimson Peak, il tempo è un tiranno che condiziona i personaggi. Per compensare questo spettro, che inevitabilmente nasconde una limpida paura per il fallimento della memoria e per la morte, vi è sempre il tentativo di poterlo fermare attraverso una dolorosa e illusoria realtà altra.
Ne La forma dell’acqua è la corsa al futuro il cuore temporale del film. Strickland, benché insista a masticare le caramelle della sua infanzia, è definito “the man of the future”, come la sua macchina nuova di zecca. Peccato che le caramelle lasceranno lo spazio a dosi massicce di medicinali per evitare la cancrena a due dita (nere!!!) e la Cadillac durerà appena mezza giornata. È tramite il colore verde, lo stesso delle disgustose torte di gelatina, una delle tonalità dominanti, spesso combinata con il blu in un’ambigua e viscerale cianosi, che l’America degli anni sessanta cavalca l’entusiasmo verso nuovi orizzonti.Ma ai nostri protagonisti questa frenesia della conquista ha senso solo se va di pari passo con un sincero riconoscimento dell’altro, nella più sincera e calda condivisione.
Con la stabilità garantita dai crane arms, Del Toro tiene sempre i suoi personaggi in movimento, quasi si trovassero dentro un musical. Al suo sguardo calcolato e ben studiato, si affianca l’inconfondibile lavoro di design, un vero e proprio marchio di fabbrica del regista.
Il mondo rappresentato è infatti fisico, materico, se ne sente lo spessore fin nei dettagli degli oggetti più piccoli. La plasticità marcata dell’estetica di Del Toro però crea una tensione con l’elemento liquido, da sempre portale intrauterino dell’inconscio, qui protagonista fin dal titolo. La liquidità è uno specchio di Alice dove emerge ciò che è nascosto, ma anche un grembo in cui spesso si può trovare una quiete e un happy ending (?) che il mondo non ci può garantire.
La fantasia e la realtà dialogano sempre, senza sosta, entrambe possiedono elementi oscuri e di pericolo, ma è soprattutto attraverso la prima che si può assistere a veri e propri miracoli. Come su uno schermo.
Non stupiamoci quindi se con la semplicità naif di un ragazzino, Del Toro dona la voce alla nostra principessa e, sotto le note de La Javanaise, le permette di ballare con il (suo) mostro venuto dagli abissi.
In uno spazio senza tempo, per l’appunto, chiamato Cinema.
Marco Compiani, Spietati.it, 19 marzo 2018Altre informazioni
Sceneggiatura: Woody Allen, Marshall Brickman
Fotografia: Gordon Willis
Montaggio: Wendy Greene Bricmont, Ralph Rosenblum
Scenografia: Mel Bourne
Arredamento: Robert Drumheller, Justin Scoppa Jr.
Costumi: Ruth Morley
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