Critica
Le donne di Woody Allen resistono all’andare del tempo, affrontano la vita a viso aperto e, nella loro disperazione, si rivelano abbastanza forti da prendere il posto degli uomini. Difficile, forse impossibile, dimenticare i monologhi infervorati di Cate Blanchett in Blue Jasmine, l’intraprendenza di Emma Stone in Irrational Man e la leggerezza di Kristen Stewart in Cafè Society, per citare solo le sue ultime opere. Ne La ruota delle meraviglie, la nuova musa è Kate Winslet, a tratti una moderna Joan Crawford in Anime in delirio per come viene illuminata dalle luci del nostro Vittorio Storaro, uno dei migliori direttori della fotografia in circolazione.
Il titolo del film si ispira alla mitica Wonder Wheel del parco divertimenti di Coney Island, a New York. Siamo negli anni Cinquanta, e gli affari sono in caduta libera. Gli americani non vogliono più divertirsi nei luna park, e preferiscono abbronzarsi sulla spiaggia. Ginny è un’ex attrice dall’animo represso. In gioventù ha recitato in teatro, ma adesso è la moglie del rozzo Humpty, un manovratore di giostre all’ombra della ruota delle meraviglie, un uomo rude che ama la pesca e i superalcolici.
Ginny vorrebbe esplodere, costruirsi una nuova esistenza lontana dal marito e dal figlio piromane che, nonostante la tenera età, appicca incendi ovunque. Lei si innamora del bel bagnino del Blocco Sette, e inizia una relazione morbosa, a cui Ginny vorrebbe aggrapparsi per non affogare. Tutto cambia all’arrivo di Carolina, la figlia nata dal precedente matrimonio di Humpty, che da giovane era scappata con un gangster. Adesso i suoi scagnozzi la stanno cercando, e nessuno è più al sicuro.
La favola di Coney Island si scontra con la dura realtà di Ginny, in un film abbastanza anomalo per Allen, dove l’ironia ha lasciato il posto al dramma in stile Tennessee Williams. I dialoghi spesso non hanno quella leggerezza dei suoi capolavori passati, con lo spettro di un’occasione mancata che si profila all’orizzonte. Ma la fotografia di Storaro è magnifica, e tiene testa all’ottima interpretazione di Kate Winslet. I colori accesi trasportano il pubblico in una dimensione onirica, in un luogo in cui, almeno all’apparenza, i sogni si possono realizzare.
La ruota delle meraviglie è un film di contrasti, di scontri, tra l’età adulta e la gioventù, tra chi si sente soffocare e chi può permettersi di guardare con speranza al futuro.
Sullo sfondo, una suggestiva Coney Island ricostruita nei minimi dettagli. In primo piano un testo quasi teatrale, ambientato tra le mura domestiche della famiglia di Ginny. Ci si poteva aspettare qualcosa di più da una sceneggiatura di Woody Allen, ma gli amanti del maestro potranno ritrovare i suoi temi prediletti: l’amore per il cinema, per la rappresentazione, la fragilità dell’animo umano, destinato a soffrire, con la mente e con il cuore. La vita non è un luna park, sembra dirci il maestro, mentre il suo Alvy Singer di Io e Annie sembra ancora osservarci dalla sua casa sotto le montagne russe.
Gian Luca Pisacane, Cinematografo.it, 12 dicembre 2017
Woody Allen aveva già citato il Luna Park di Coney Island in una battuta di Io e Annie quando faceva dire al suo personaggio (Alvy Singer) di aver abitato sotto le montagne russe di quel parco di divertimenti.
Questa volta vi si installa direttamente facendosi dominare da quella Wonder Wheel che diventa simbolicamente la ruota delle vite dei suoi protagonisti. Dopo il raffinato e malinconico tuffo nella Hollywood degli studios di Café Society Woody si immerge nel dramma di piccole vite di uomini e donne che cercano di strappare alla quotidianità qualche momento di luce. Che sia quella di una battuta di pesca per Humpty, di una relazione da consumare sotto dei tramezzi di legno tra letteratura e teatro per Ginny o come possibilità di fuga e sopravvivenza a una scelta sbagliata per Carolina.
Una luce che Vittorio Storaro, alla sua seconda collaborazione con Allen, preleva dalla natura e trasferisce sui personaggi offrendo a Ginny le tinte rosseggianti del tramonto e a Carolina quelle del momento di passaggio verso la notte. Grazie poi al cromatismo delle diverse attrazioni del Luna Park, in più di un'occasione l'"autore della fotografia" accompagna i mutamenti del sentire con quella che lui chiama 'fisiologia del colore'. Ed è proprio grazie anche a queste scelte cromatiche che Allen chiarisce, per chi vuole intendere ovviamente, l'assunto di questa sua nuova opera che peraltro aveva già fatto dichiarare a Mickey. Stiamo assistendo a un film la cui sceneggiatura si è venuta sviluppando seguendo i canoni narrativi di un aspirante scrittore imbevuto della letteratura degli Anni Cinquanta.
Il lifeguard (che suona indubbiamente meglio che l'italiano 'bagnino') Mickey è anche uno studente della New York University ma qui si assume lo specifico ed esplicito ruolo del narratore. Siamo cioè davanti a uno dei film più teorici della più che vasta filmografia alleniana forse in modo meno evidente che in Stardust Memories ma con altrettanta progettualità. È da questo punto di partenza che vanno letti gli sviluppi di una vicenda che consente in particolare a Kate Winslet di recitare finalmente in un film di Allen (dopo aver declinato l'offerta di un ruolo in Match Point per motivi personali) offrendo a Ginny i tormenti di una protagonista dei drammi di Tennessee Williams o di Eugene O'Neill ma incapace di offrire ai suoi lampi di passione quelle fiammate che il figlio Richie non smette di provocare.
Giancarlo Zappoli, Mymovies.it, 11 dicembre 2017
Ognuno recita la propria parte, immerso fino al collo nella laguna della propria esistenza, col volto compresso contro le pareti di una maschera che alle volte stenta a reggere il peso dell’intera e complessa personalità, eppure a questo lo spettatore non deve far caso (o meglio, se non vuole può anche non farlo) poiché a contrastare tutta quella fangosa parabola di noia e sogni infranti provvede una sfavillante e allegra location, quella della Coney Island degli anni ’50.
All’interno di questa cornice amara, elegantemente stereotipata e laccata di gioia Woody Allen crea i presupposti per dare vita al suo nuovo film, La Ruota delle Meraviglie (Wonder Wheel), servendosi di una magnifica Kate Winslet la quale, nella sua formidabile interpretazione di Ginny, riesce a far affiorare tutte le venature di una donna stanca di rimandare le proprie ambizioni attoriali, ma che d’altra parte pare cullarsi nella sua impossibilità, come in un’inconscia consapevolezza di non essere in grado di raggiungerli.
Srotolando dinnanzi a noi l’atmosfera carnevalesca di un parco divertimenti e il fascino irresistibile degli anni ’50, Allen mette in scena il suo dramma metacinematografico dal quale sembriamo rimanere perennemente ai margini per via di una serie di rimandi e aneddoti che ci sottolineano con la penna blu la necessità di rimanere al di fuori della quarta parete, salvo essere irrimediabilmente travolti da quel capriccio scosceso che è la tristezza: ragnatela nella quale tutti i protagonisti sembrano essere imbrigliati.
La Ruota delle Meraviglie, titolo buffo e azzeccato, trova in Mickey Rubin (Justin Timberlake), lo studente di drammaturgia e aspirante scrittore che fa il bagnino in estate, un narratore omodiegetico che con fare allegro ci presenta Ginny, immersa in un sistema di autodistruzione di cui la tristezza e la rovina consenziente sembrano essere satelliti naturali. Ciò che più attira di questa donna, che per sopravvivere fa la cameriera, è che cerchi di apparire a tutti i costi per ciò che le piacerebbe essere senza di fatto far nulla per cambiare. Nel suo cuore è un’attrice di talento costretta a mettere da parte la carriera per il bene del figlio, è una moglie insindacabile e un’amante ineccepibile, ma questa è solo una delle sue tante maschere e lei lo sa bene. Sul fondo della personalità di Ginny si poggia solamente una patina di sano egoismo e amor proprio, qualcosa che la spinge a volere di più e a cercare di meglio. Così il marito Humpty (Jim Belushi) è solo una pezza d’appoggio: un uomo che la ama e che ripone in lei tutte le speranze, credendo di conoscerla e che tra loro ci sia sana sincerità, ma così non è.
Gli occhi della passione che traslitterano nell’anima il nodo alla gola del primo fatidico incontro sono gli stessi che notano l’oppressione soffocante di chi cerca nei sentimenti non la libertà di un abbraccio, ma l’appiglio eterno, sicuro e soffocante di una catena.
In questa prospettiva, se il fulcro di ogni vicenda è la personalità di Ginny, il deus ex machina è niente meno che il fato, al quale la mano umana dà certo una spintarella, quella minima che basta a far filare tutto liscio!
Tornando ai rapporti umani, la trama de La Ruota delle Meraviglie si inerpica su più piani partendo dal rapporto classico tra marito e moglie fatto di piatti da lavare, eventi ai quali partecipare o meno, figli (uno, che Ginny ha avuto dal suo precedente matrimonio) da educare. Da qui si giunge poi al rapporto di puro svago, che è quello che nasce tra Ginny e il suo amante Mickey, molto più giovane di lei e ancora a quello che quest’ultimo va a costruire con Carolina (Juno Temple), la figlia di Humpty tornata tra le braccia del padre per sfuggire al marito (un gangster dal quale ha divorziato e che adesso vuole ucciderla per aver rivelato dettagli della sua attività all’FBI). È chiaro che in questo groviglio di lenzuola si vada a inserire il rapporto scontroso tra Carolina e la sua matrigna, in un’esplosione di personalità che in fondo non farà altro che mettere su due piatti della bilancia due donne diverse per età, esperienze e stile di vita.
Così da una parte abbiamo Carolina: giovane, bella e, nonostante abbia già un divorzio alle spalle e sa bene di aver fatto delle scelte sbagliate, non si perde d’animo e guarda verso il futuro. Anche i colori che la circondano e le circostanze nelle quali Mickey la incontra trasmettono questa idea di ricominciare da capo. Ginny, al pari della figliastra, sa di essere in quella situazione per colpa sua (non doveva tradire il marito con un attore!) ma, invece di voltare pagina, si riduce a piangersi addosso e ad arenarsi tra gli scogli di una relazione clandestina che non può darle ciò che desidera.
La Ruota delle Meraviglie: la vita pretende dinamicità!
Incrociando lo sguardo delle due donne, lo stesso Mickey a un certo punto diventa un narratore poco affidabile e la sua unica attrazione sembra essere dettata dal passato delle donne, come se valesse di più – anche per lui – l’apparire e non l’essere (aver viaggiato il mondo e aver vissuto nel lusso è di gran lunga più emozionante di aver tentato di recitare senza fortuna!).
Alla malinconia latente dei suoi personaggi in La Ruota delle Meraviglie Woody Allen abbina (con l’aiuto di Vottorio Storano) delle riprese che portano la sua indistinguibile firma, tratteggiate come cartoline di un’altra epoca e intramezzate da una fotografia fatta di colori pastello la cui leggiadra allegria ben si alterna alla tristezza interiore. Stessa operazione viene compiuta dalla colonna sonora: una scia di rocambolesca musicalità che tenta di stemperare con ogni suono la vita facendola apparire per ciò che vorremmo fosse; una messinscena dalla quale ci si può dissociare.
E invece no! Come su una ruota panoramica (che domina le location del film) l’essere umano si trova prima in basso, poi in alto, poi di nuovo in basso. E gli capiterà di meravigliarsi, magari in positivo o forse in negativo, ma alla ruota non importa perché essa continua a girare, manovrata dalla fisicità dell’uomo che la comanda e coadiuvata discretamente dal destino. Scendere significherebbe farla finalmente finita, ma la vita pretende dinamicità!
Teresa Monaco, Cinematographe.it, 12 dicembre 2017