Critica
Una nuova pagina di quel cinema sobrio e morale, tipicamente americano, che risponde alle aberrazioni del decennio attuale con storie di eccellente rettitudine del passato, Cattive acque si inserisce nella tradizione di Tutti gli uomini del presidente, Spotlight, The Post, Insider - Dietro la verità, in cui l'individuo deve accettare che il sistema è in fondo nulla più che noi stessi - fallaci e opportunistici, ma anche capaci di tirare una riga e dire "basta".
Tratto da un'inchiesta giornalistica, sviluppato dalla star attivista Mark Ruffalo, e animato da uno spirito educativo doveroso ma che rischia sempre di far passare in secondo piano il valore dell'immagine, Cattive acque trova una sintesi tra le sue anime spurie grazie a Todd Haynes, che accetta le costrizioni del dramma legale e familiare senza opporre loro resistenza, e anzi assecondandole nella loro semplicità. Molti spettatori si chiederanno dove sia il regista di film maiuscoli e sovversivi come Carol, Io non sono qui e Safe in questo mondo filtrato di un blu corporate e ordinato nella griglia interminabile delle finestre dei grattacieli di Cincinnati che ospitano gli uffici della Taft Law.
Come nel suggestivo incipit, che riporta agli anni Settanta e a un gruppo di ragazzi pronti a un bagno di mezzanotte in un lago particolarmente torbido, occorre guardare sotto la superficie per notare certi riflessi da film horror. Haynes va a cercare il veleno invisibile nel cuore della famiglia americana, l'unica istituzione più potente della malefica Dupont, che ha costruito un impero sull'utilizzo del Teflon celandone i pericoli per la salute. La padella anti-aderente è il simbolo del capitalismo sposato all'ideale domestico a stelle e strisce, due capisaldi non meno inscindibili degli atomi di carbonio che si legano per creare i PFAS, inattaccabili per il nostro organismo.
E così, se Bilott è il fantasma che infesta la Dupont fino a metterne in crisi l'esistenza, allo stesso tempo il veleno invisibile infesta lui, la sua casa, e noi, costringendoci a strappare la moquette dal pavimento e a buttare via gli utensili della cucina nel cuore della notte. Ed ecco dove riemerge Haynes, il cantore dell'epidemia silenziosa (come le allegorie sull'AIDS in Safe) e della decostruzione queer della famiglia convenzionale (Carol e Lontano dal paradiso).
Mark Ruffalo abita il corpo modesto e sofferente di Bilott con la consueta plasticità, e attorno a lui Tim Robbins e Anne Hathaway interpretano un capo e una moglie che alternano brillantemente supporto e pressione; perché il commercio e il matrimonio, in fondo, possono essere resi migliori una persona alla volta, proprio come i grandi nemici invisibili.
Tommaso Tocci, Mymovies.it, 11 dicembre 2019
Iniziamo la recensione di Cattive acque, il nuovo film di Todd Haynes con Mark Ruffalo, in uscita il 20 febbraio, proprio dal titolo. "Cattive acque" di solito è un'espressione usata in senso metaforico, per connotare una cattiva situazione. In questo caso invece va intesa proprio in senso letterale: le cattive acque sono quelle di una località della West Virginia, contaminate dagli scarichi di un'azienda chimica americana, la DuPont. Le cattive acque fanno morire il bestiame e fanno ammalare le persone che le usano. Cattive acque è un esempio di quel cinema civile americano, ormai un genere a sé, un cinema impegnato, scarno, potente.
Cattive acque, per capirci, è un prodotto sulla scia di Erin Brockovich di Soderbergh (ma senza gli istrionismi di Julia Roberts) o di Promised Land di Gus Vant Sant, per rimanere nel campo degli scandali ambientali. È quel genere di film inchiesta sul tipo de Il caso Spotlight (i produttori, e il protagonista, Mark Ruffalo, sono gli stessi), quei film che una volta arrivavano dritti alle nomination agli Oscar (e, come in quel caso, li vincevano) per la forte spinta morale del film. Non c'è stata invece alcuna menzione per questo film, come per un altro prodotto tipico da corsa agli Oscar, come Il diritto di opporsi (di cui vi avevamo parlato nella nostra recensione). Come mai? Il discorso sarebbe troppo lungo. Probabilmente negli ultimi anni si è privilegiato il lato artistico dei film, la creatività della messa in scena, rispetto a prodotti dagli stilemi narrativi ormai codificati e, in un certo senso, prevedibili. Certo che se Il caso Spotlight è arrivato a vincere un Oscar, Cattive acque in nomination poteva starci benissimo. Anche se capita in un'annata davvero pregna di grandi lavori, e forse la causa delle mancate nomination è anche, e soprattutto, dovuta a questo. Cattive acque è un film interessante, denso, soltanto un po' tedioso quando inizia l'inevitabile lezione di chimica... ma supera anche quel momento brillantemente. (...)
Se vi dico la parola PFOA, sapete di cosa stiamo parlando? E se vi parlo di C-8? Anche Robert all'inizio è spaesato, e queste sigle gli sembrano incomprensibili. Il PFOA, o C-8, è un composto chimico fatto attaccando otto molecole di carbonio, è impermeabile all'acqua, ed è stato testato durante il Manhattan Project, come materiale per i carri armati. Finita la guerra, l'industria chimica americana ha pensato bene di usarlo per le padelle, con un nome commerciale che sicuramente molti di voi hanno sentito: teflon. Chi di voi non ha mai avuto una padella in teflon? Ecco, il teflon negli anni è stato causa di migliaia di tumori per chi lavorava alla sua produzione, e per chi viveva vicino alle fabbriche. Le statistiche ci dicono che è presente nel 99% degli esseri umani. Il teflon è dentro di noi.
È una delle cose che, secondo uno schema consolidato in questo tipo di film tratti da storie vere, apprendiamo alla fine, tramite le scritte su schermo nero, cose che ci rendono il tutto ancora più inquietante. Todd Haynes, alla regia, si mette completamente al servizio della storia, lasciando da parte il suo stile personale e raffinato, per dare vita a un racconto denso, intenso, teso. Se c'è una cosa che Haynes ha sempre saputo fare è stato ricostruire mondi ed epoche (gli anni Cinquanta dei mélo alla Douglas Sirk di Lontano dal paradiso, gli anni Sessanta del folk di Io non sono qui, gli anni Settanta del glam rock di Velvet Goldmine) e anche qui ci riesce. Anche se è meno evidente, è bravissimo a ricostruire il mondo tra gli anni Novanta e il duemila, anni che ci sembrano ieri, ma sono già Storia. Per farlo basta far aprire al protagonista Windows 2000 in un computer di 20 anni fa, farci sentire quel suono inconfondibile, farlo navigare sui motori di ricerca del tempo.
Ma non è ovviamente la ricostruzione d'epoca che interessa a Haynes, quanto la forza della storia. È una storia che parla da sé e Haynes la mette in scena in maniera semplice, secondo uno stile ormai codificato per il cinema di questo tipo. Haynes mette la macchina da presa ad altezza delle persone con primi piani e piani americani (se si eccetta qualche ripresa aerea volta a contestualizzare le scene), e filma lasciando fluire le sensazioni. Nel creare la giusta atmosfera, cupa e oppressiva, è aiutato dal direttore della fotografia, il fido Edward Lachman, che dipinge le scene sulle tonalità di un verde livido. In un racconto lineare come questo non mancano dei momenti ad effetto come la scena in cui una mucca impazzita carica Robert e il fattore, e una scena molto toccante in cui, in montaggio alternato, Robert racconta come molte donne che lavoravano alla DuPont avessero avuto dei problemi durante la gravidanza, mentre la moglie sta per entrare in sala parto.
Come avrete capito, Cattive acque è una di quelle storie in cui i personaggi si gettano anima e corpo nella battaglia che stanno combattendo, e in cui viviamo con loro le pesanti ricadute sulla loro vita privata. A portarci dentro la storia è un Mark Ruffalo straordinario che si immerge completamente nel suo personaggio. Il suo Robert è goffo, sovrappeso. Ma oltre a lavorare sul fisico lavora anche moltissimo sul volto, con la mandibola e il labbro inferiore a chiudere il morso e a far gonfiare le guance, in un tic, un'espressione che probabilmente avrà preso dal vero Robert. È un Ruffalo lontanissimo dal Bruce Banner degli Avengers e anche dal sex symbol che avevamo conosciuto in In The Cut, un Ruffalo che scompare nel suo personaggio e in questo modo tiene tutto il film sulle sue larghe spalle. Accanto a lui anche Anne Hathaway cerca di normalizzare, se non nascondere, la sua bellezza nel ruolo della moglie Sarah. È quasi impossibile normalizzarla, ma anche lei è efficace e funzionale alla storia. Verso la fine del film è Ruffalo a toglierci ogni speranza, e a spiegarci in una frase qual è il mondo in cui viviamo. "Dobbiamo proteggerci da soli. Nessuno lo fa, né le aziende, né gli scienziati, né il governo". Ma il suo personaggio, pur minato nella salute, non mollerà - la sua battaglia continua ancora adesso - e non si arrenderà. Come canta Johnny Cash sui titoli di coda (ecco l'anima rock di Todd Haynes che viene fuori), su musica e parole di Tom Petty: "No, I won't back down".